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La colonizzazione mentale di Unicredit/Mps è un film già visto
“Noi e loro”, dove il “noi” identificava gli invasori di Unicredit e il “loro” serviva a ghettizzare i colonizzati di Capitalia. Era questa la locuzione più utilizzata dopo la fusione tra i due gruppi creditizi avvenuta il 1° ottobre 2007 per rimarcare le differenze. All’epoca ero responsabile di area di Unicredit e ho vissuto da protagonista l’intero processo di integrazione culturale e operativa tra le due diverse anime di quella forzata (sempre dal Tesoro) convergenza.
Perché mai e poi mai Unicredit, che all’epoca era tra i più efficienti gruppi creditizi europei, si sarebbe sognato di incorporare, spontaneamente e a quelle condizioni, una banca che, altrimenti, avrebbe dovuto portare i libri in Tribunale? E anche allora ministri e sindacati promisero di “sorvegliare attentamente per garantire l’interesse pubblico, il rispetto di un marchio glorioso e la tutela dei lavoratori”. Tante similitudini, un vero e proprio déjà vu per il sottoscritto con quanto potrebbe verificarsi, in termini di “colonizzazione mentale”, se andasse in porto l’altrettanto coatta acquisizione di Monte dei Paschi di Siena da parte dell’istituto di piazza Gae Aulenti.
I manager e i dipendenti di Mps potrebbero vivere momenti difficili. E non parlo dei circa 6.000 (penso molti di più) esuberi che saranno gestiti direttamente dall’invasore (Unicredit), ma mi riferisco a quel processo di induzione alla soggezione psicologica e culturale accompagnata dalla giustificazione di “salvatori” di coloro che lo attuano. Ecco come potrebbe essere la sceneggiatura di un film già visto.
Ho partecipato a riunioni carbonare tra soli manager di Unicredit, i supereroi che, con la puzzetta sotto al naso, stabilivano le modalità di approccio prima di affrontare la pantomima delle convention per portare a bordo “quelli che gestivano una banca con metodi antiquati”. Perché per assoggettare il colonizzato è utile soprattutto pianificare “scientificamente” la veicolazione dei messaggi. Ho verificato la crudeltà con cui i coloni ripetevano costantemente che la banca ormai si chiamasse Unicredit (anche se fu concesso il contentino di affiancare al main brand, solo per un breve periodo di tempo, il suffisso “Banca di Roma”) evidenziando la “loro” perdita di identità.
Questi erano solo alcuni dei metodi utilizzati per incidere sulle due aree fondamentali del processo di “colonizzazione mentale”. La prima è la sfera psicologica attraverso la quale si diffonde nel dipendente invaso (Mps) il sentimento di inferiorità e di impotenza al cambiamento. È vero che in una prima fase si concedono, per puro formalismo, ai dirigenti conquistati e supereducati anche alcuni posti di comando nel top e middle management al fine di creare un gruppo di affidabilissimi e devotissimi che, ben motivati, istruiti e premiati (in denaro, prestigio, privilegi, vantaggi, carriere, eccetera), concorrano a reggere l’impalcatura del pensiero unico coloniale.
Ma poi nel giro di un paio di anni anche quei capi fanno la fine dei dieci piccoli indiani. L’obiettivo è quello di sviluppare in poco tempo tra gli assoggettati una diffusa persuasione, tra l’altro difficile da smantellare perché sostenuta inizialmente dal ristretto gruppo dei dirigenti privilegiati, che l’oppressore abbia motivi validi per praticare la sottomissione o, almeno, che chi la subisce meriti tale trattamento.
La seconda riguarda, invece, l’ambito culturale, che si impregna di un’altra convinzione: quello che il colonizzato produce non vale quanto quello che produce il colonizzatore. Il brand, il linguaggio, i simboli, i modelli organizzativi, commerciali e informatici, le consuetudini, gli arredi e la logistica, eccetera, di quest’ultimo appaiono sempre più belli, più importanti, più validi di quelli del colonizzato. In pochi mesi della banca colonizzata (Mps) non rimane praticamente più nulla.
La colonizzazione mentale non è un mero “effetto collaterale” della colonizzazione economica e politica ma, anzi, è uno dei cardini della strategia di sottomissione della comunità conquistata. Perché il paradosso della relazione di colonizzazione è che il colonizzatore, anche tramite gli organi di governo e sindacali, offre margini di libertà di pensiero al colonizzato, lo fa sentire libero e liberato, gli riconosce persino un diritto al disaccordo, ma in realtà lo sta intrappolando come un cavallo coi paraocchi, affinché non imbizzarrisca. Vedremo lo stesso film. Nel frattempo faccio una scadenzatura a due anni.