By: account
Il caso Faire.ai: un esempio per le banche
Partiamo dalla fine
Dal discorso di insediamento di Mario Draghi in Parlamento sulla “distruzione creatrice”, interpretato pro domo loro dai banchieri/bancari.
In sintesi il Presidente del Consiglio, coerentemente con le linee già tracciate nella lettera inviata al Financial Times un anno fa, ha stabilito che gli aiuti alle imprese ed ai lavoratori sono necessari ma devono essere selettivi.
“Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, – le parole del premier – ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche: alcune dovranno cambiare, anche radicalmente, e la scelta di quali proteggere è il difficile compito che la politica dovrà affrontare”.
Quel discorso ha creato un po’ di ingiustificata soddisfazione nel mondo finanziario che, con un po’ di autocompiacimento non disgiunto dall’endemico delirio di onnipotenza, hanno interpretato a senso unico quel discorso.
Quando il premier ha ribadito che “alcune (imprese) dovranno cambiare”, si è riferito non solo alle imprese che prendono denaro immeritevolmente.
E quando il premier ribadisce che “alcune dovranno cambiare”, si riferisce non solo alle imprese che prendono denaro immeritevolmente. Su queste colonne abbiamo più volte sottolineato il ritardo delle nostre imprese, soprattutto piccole e micro aziende, in termini di criteri gestionali capaci di individuare elevati livelli di indebitamento oppure scarsa redditività’. Se non si ottiene il credito, la colpa non è sempre delle banche. Perché molto spesso anche gli imprenditori e i loro consulenti fanno fatica ad uscire dalla zona di comfort zeppa di cattive abitudini e pregiudizi. E’ vero ma non è l’unica verità.
Perchè così rischiamo di camminare contromano in una corsia a senso unico.
Draghi, infatti, ha voluto riferirsi anche alle banche, non solo perché anche loro hanno bilanci da zombie ma soprattutto perchè il loro modo di valutare il merito creditizio è, nella stragrande maggioranza dei casi, riferito all’era dei dinosauri.
Non è nelle mie intenzioni fare i nomi dei pochi (veramente pochi) istituti di credito che si stanno attrezzando per calcolare l’affidabilità di un soggetto in maniera moderna riducendo il rischio derivante dalla probabilità di default del prenditore di danaro e per creare nuove opportunità di business.
Mi piace invece segnalare la nascita di una start up che in piena epoca pandemica ha deciso di sfidare l’approccio tradizionale del mondo finanziario per l’erogazione del credito al consumo.
Si chiama Faire.ai e fa capo a quattro giovani talenti esperti del mondo fintech (tra cui il CEO Gianluigi Davassi) che hanno messo in piedi una azienda B2B specializzata nell’automazione del credito al consumo che sfrutta l’open banking come fonte di dati e utilizza il machine learning e l’intelligenza artificiale per stimare i modelli di rischio dei consumatori. La piattaforma gestisce l’intero ciclo di vita di un prestito, consentendo a banche e istituzioni finanziarie di accedere al mercato del prestito istantaneo con un’unica procedura che consente il recupero delle transazioni degli utenti presso le varie banche. A questo punto entra in gioco l’intelligenza artificiale che consente di definire il merito creditizio dell’utente senza soffermarsi tanto sulla miriade di inutili carte e documenti di solito richieste per concedere, dopo mediamente 25 giorni, un prestito.
Volendo semplificare i concetti, invece di analizzare documenti reddituali molto spesso edulcorati, questo software può stimare il reddito di un richiedente analizzando le sue operazioni bancarie.
Così come, sempre sulla base della lettura delle operazioni bancarie con tutti gli istituti di credito, può predire la solvibilità o la morosità di un debitore.
Un metodo più sicuro e più preciso che potrà fornire anche informazioni più “sottili” sulle entrate e sulle spese. Ci dirà se non hai lavorato per alcuni mesi o se sei stato all’estero per un lungo periodo. Oppure se la tua dichiarazione dei redditi è veritiera.
Un altro aspetto da non sottovalutare riguarda la capacità inclusiva di queste metodologie.
Le banche utilizzano modelli di rischio che si appoggiano esclusivamente sui dati delle centrali di rischio e sui dati socio demografici. Questi modelli conservativi svantaggiano determinate popolazioni o lavoratori che non hanno mai ottenuto prestiti in passato (come può’ essere un lavoratore precario/rider) o che hanno dati socio demografici che non appartengono a classi più tradizionali (l’immigrato). Utilizzando i dati bancari invece è possibile ottenere una “fotografia” molto precisa della situazione finanziaria dell’utente ed essere in grado di includere e approvare crediti per tutte quelle fasce di popolazioni che possono concretamente permettersi il prestito, ma sarebbero esclusi dai modelli tradizionali delle banche.
Le crisi determinano opportunità. Speriamo che lo capiscano anche le banche.
Secondo quanto riferitomi, qualche tempo fa, da Marie Johansson di Tink (la piattaforma svedese di open banking che è arrivata da poco nel nostro paese con una dotazione di oltre 33 milioni di clienti finali ), in Italia le banche vedono in generale, ma molto teoricamente, l’open banking come un’opportunità. Basti pensare che da una loro ultima indagine risulta che 4 banche su 5 ritengono che il settore stia subendo una trasformazione significativa (ma davvero?) e il 57% delle stesse avverte una vera e propria urgenza (ma va là?) nel vedere introdotti nuovi servizi basati sull’open banking.
Ma mentre loro avvertono solo l’urgenza ma sono lenti a reagire e a ragionare “diverso”, c’è chi è molto più smart nelle decisioni e vince!
Tra poco tutto sarà nelle mani del consumatore.
Anche la sopravvivenza di una banca.