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Il paradosso del buon governo bancario
Articolo di Vincenzo Imperatore su Il Roma
Durante uno dei miei ultimi viaggi di lavoro mi sono fermato a Siena e ne ho approfittato per visitare il palazzo comunale dove sono conservati eccezionali affreschi di Ambrogio Lorenzetti realizzati nel 1338/1339: “L’allegoria e gli effetti del buono e del cattivo governo” che dovevano ispirare l’operato dei governatori cittadini che si riunivano in queste sale. Non sono competente di arte, ma Lorenzetti, nel mio immaginario, ha prodotto due tipi di reazione: da un lato mi ha fatto sorridere per le paradossali (se raffronto il tutto a ciò che vivo) semplificazioni e dall’altro mi ha fatto riflettere sul senso profondo delle azioni di governo nelle cose pubbliche o nelle imprese private. Sono passati 700 anni da quell’affresco e il mondo è sicuramente più complesso. Però il tema del buon governo è sempre presente. Limitandoci a una visione prettamente economico-imprenditoriale, per esempio, è chiaro e paradossale che negli ultimi decenni la giurisprudenza e la legislazione hanno definito un complesso di regole internazionali che dovrebbero aiutare a evitare la mala gestione delle imprese, soprattutto quando queste rivestono un carattere di utilità pubblica. In particolare da anni questo avviene per le banche e il mondo della finanza. La delicatezza del ruolo delle banche, per gli effetti che queste hanno sugli andamenti dell’economia e per la tutela del risparmio dei cittadini, ha determinato negli ultimi anni la più alta produzione (della storia) di norme e adempimenti che riguardano specificatamente i consigli di amministrazione e i collegi sindacali. Non è successo per nessun altro tipo di impresa, sicuramente non con la profondità e il dettaglio che è avvenuto per le banche. Le norme oggi disciplinano quasi tutto: definiscono i criteri di onorabilità e professionalità che devono avere le persone componenti degli organi, le modalità di nomina degli amministratori, i compiti degli organi e ciò di cui non si devono occupare, le modalità di lavoro interne degli organi, la gestione dei conflitti di interessi, i criteri di determinazione delle remunerazioni, l’organizzazione dei sistemi di controllo interni dell’impresa e le modalità con cui questi sono riferiti al consiglio e al collegio. È stato anche normato, e ne abbiamo parlato spesso su queste colonne, il modo con cui una banca può operare: determinando i requisiti di capitale necessari, la propensione (appetito) al rischio, la gestione della liquidità, le modalità di gestione sia operativa sia ai fini del bilancio dei prestiti erogati e di quelli che presentano criticità (deteriorati o Npl Non performing loan). Si è anche provveduto a disciplinare (Banca d’Italia, Circolare n. 285, 11° Agg. 21/7/2015) la gestione dei “whistlerblower” in modo che questi ultimi siano tutelati da eventuali ritorsioni allorquando segnalino eventuali violazioni dall’interno (e di cui abbiamo parlato su queste colonne).
Insomma, un complesso di norme che dovrebbe garantire il “buon governo” idealizzato da Ambrogio Lorenzetti. È stato così? È così? In realtà se leggiamo la cronaca non pare che l’ipernormazione funzioni molto. O meglio, le regole sembra non abbiano avuto effetti determinanti dato che le violazioni sono veramente tante e diffuse che evidentemente qualcosa non funziona. Non solo, ma nel 2013 il politecnico di Milano ha stilato una classifica dei migliori casi di governance nel sistema bancario internazionale. Ebbene una buona parte delle banche migliori figura nelle classifiche di quelle che hanno pagato più multe. Le italiane non sono, fortunatamente, tra le migliori in questa classifica, ma il Monte dei Paschi di Siena figura come la terza banca italiana… Come si possono spiegare queste contraddizioni? Aspettate una settimana…