By: gestione
Il rischio è la linfa vitale degli imprenditori
Tratto da Lettera 43
‘Chi non risica non rosica’ è il famoso detto popolare per indicare chi non ha il coraggio di buttarsi a capofitto quando un’opportunità si presenta e perde l’occasione di crescere, di imparare, di evolversi.
‘Crescere’ non è però l’unico risultato realizzabile quando si investe in un nuovo progetto.
Questo lo sanno gli imprenditori, le banche, i manager e anche chi non ha un attività economica.
LA CONCEZIONE LATINA. Il fallimento, inteso come insuccesso di una iniziativa (e quindi non necessariamente legato al procedimento giudiziario), è il lato oscuro di ogni investimento, sempre dietro l’angolo, ma non per questo è negativo su tutti i fronti.
Ma nell’immaginario collettivo, concezione tipicamente dell’Europa Latina e cattolica, il fallimento è un evento che individua un momento tragico, di inaudita gravità, un errore che genera una colpa: chi fallisce non soltanto sbaglia, ma resta macchiato per sempre, è esposto alla pubblica umiliazione, perché non è riuscito ad incarnare quei valori (soprattutto onorare il debito) che la società considera come formalmente apprezzabili.
Una colpa terribile, che va taciuta, tenuta nascosta come un tempo il concepimento di una ragazza nubile.
ANGLOSASSONI PRAGMATICI. Tanti studiosi di sociologia e antropologia ammettono che questa visione sia la conseguenza della morale cattolica deviata molto radicata nella società occidentale di estrazione latina. Ma mi chiedo, da cattolico convinto, se il Vangelo racconta che errare è umano e perdonare è divino, perché nell’economia del Vecchio continente non è così? Chi sbaglia – cioè chi fallisce – non può essere perdonato, cioè non gli è concessa l’opportunità di ricominciare.
Nei paesi anglosassoni e nordamericani vi è una concezione molto diversa del fallimento.
Lo spirito pragmatico derivante dalla morale protestante fornisce la sua grande lezione: non è pensabile creare un’azienda di successo senza sbagliare. Gli errori insegnano all’imprenditore ciò che non deve fare, se vuole raggiungere un obiettivo.
Il fallimento è un elemento naturale del mercato
Il fallimento è un elemento naturale del mercato e chi fallisce deve subito rimontare a cavallo e ripartire. Ed è proprio la consapevolezza dell’errore che permette poi di condannare al carcere (quello vero, non come nel nostro Paese) chi ha costruito fraudolentemente l’insuccesso.
Ripartire quindi innanzitutto per ripagare i debiti contratti precedentemente. E ripartire significa soprattutto credito. Negli Stati Uniti, il credito non è un diritto inalienabile: il debitore può sbagliare strada e non riuscire a restituire tutto il denaro prestato.
UNA TENDENZA DIFFUSA. Questa cultura non è solo di pertinenza delle banche. Nel 2015 da una ricerca condotta dal Boston Consulting Group il 31% delle aziende interpellate ha evidenziato la prevalenza di una cultura aziendale avversa al rischio.
La diretta conseguenza è l’ostacolo (prettamente comportamentale) all’innovazione, investimenti bassi e possibilità di crescita bloccate in principio. Quello che non tutti sanno è che si possono ridurre gli effetti del fallimento e considerarlo addirittura necessario per la comprensione di alcune dinamiche aziendali che altrimenti rimarrebbero sconosciute.
Questo articolo si propone di dare uno spunto di riflessione a tutti i player (banche e imprenditori) che considerano il fallimento solo come una perdita netta di risorse (finanziarie e non), di tempo e di reputazione.
Quando le cose non vanno come programmate bisogna che tutto il processo venga analizzato partendo dall’attività di previsione.
UNA BUONA RAGIONE PER RISCHIARE. Il più delle volte si scopre che il mercato è cambiato senza che ce ne accorgessimo, che il nostro target di clienti presenta bisogni diversi o che i dipendenti all’interno dell’azienda non hanno e non condividono la cultura che i manager diffondono.
Questo potrebbe essere il segnale di un modo di comunicare sbagliato o comunque inefficiente, dei manager verso i dipendenti. Parlare, chiedersi il perché gli obiettivi non vengono condivisi, chiedersi dove si sbaglia è necessario per correggersi e ripartire.
Queste sono cose che molte volte abbiamo già sentito, studiato e magari anche fatto. Ma quando è il fallimento a evidenziare tali problematiche può esso considerarsi del tutto negativo? E pensare di poter scoprire questo ed altro non è già una buona ragione per rischiare?
Manager con una marcia in più
I manager che capiscono il proprio errore e lo correggono avranno sicuramente cominciato un processo fondamentale ma, per arrivare al vero successo, bisogna che tali errori siano comunicati a tutti i livelli dell’organizzazione aziendale.
Allargare la conversazione con i dipendenti ai livelli più bassi permette l’analisi accurata di ciò che non ha funzionato e aumenta le probabilità di successo delle iniziative future.
Alcune grandi aziende dopo il fallimento hanno attivato delle riunioni tra i massimi vertici direzionali e i lavoratori per discutere in modo veloce, regolare e con una visione proiettata al futuro.
L’IMPORTANZA DEL MONITORAGGIO. Quando un nuovo progetto viene intrapreso è importante anche il monitoraggio quotidiano dello stesso per prendere decisioni veloci e risolutive nel momento in cui si capisce che si va verso il fallimento. L’ostacolo principale all’interruzione del progetto è l’ammissione, da parte del manager, di aver fallito. Questo comporta lo spreco e il consumo di risorse che potrebbero essere risparmiate.
Il fallimento deve essere il meno doloroso possibile e per renderlo tale bisogna che da esso se ne ricavi il massimo vantaggio. Da ogni errore si può imparare, condividere e controllare che le modifiche apportate stiano effettivamente apportando valore aggiunto all’azienda.
In questo modo si può evitare un eccessivo atteggiamento protettivo per la paura del fallimento, paura questa che preclude qualsiasi possibilità di crescere.
IL VANTAGGIO COMPETITIVO. Molto spesso un atteggiamento troppo influenzato dall’avversione al rischio determina addirittura la chiusura dell’azienda. È la diretta conseguenza del non adattamento al mercato e della mancanza di investimenti per rendere la stessa competitiva. In parole povere: occasioni perse.
Al di là quindi del fatto che nel nostro Paese il fallimento dovrebbe essere rivisto dal punto di vista legislativo e giuridico come un elemento naturale (se non fraudolento) della vita economica di una società, ciò che in questo caso mi preme sottolineare in conclusione è la necessità per i player di cultura manageriale ed organizzativa.
Occorre affidarsi ad esperti della consulenza direzionale (non il solito commercialista) per cercare un vantaggio competitivo nei propri fallimenti ed eliminare quel sentiment di peccato mortale che circonda il dafault di un’impresa.
L’imprenditore che fallisce non va all’Inferno; è soltanto uno che sbaglia un tentativo.