By: gestione
Gli ”amici degli amici”? Per la banca non esistono
Tratto da Lettera 43
In questi ultimi tempi, soprattutto dopo il default delle quattro piccole banche (tra cui Banca Etruria), ho sentito (e letto) spesso che la causa principale della crisi degli istituti di credito sia imputabile ai finanziamenti, poi divenuti delle “sofferenze”, accordati agli “amici degli amici” che non avevano i rating necessari per la concessione creditizia e quindi non avrebbero potuto avere quei soldi.
È bene precisare però che quando parliamo degli “amici degli amici” nel nostro immaginario scatta immediatamente il meccanismo di associare tale caratterizzazione ai grandi tycoon o mega-imprenditori che siedono nei salotti “giusti” dimenticando che nel nostro Paese ci sono circa 5 milioni di piccole imprese contro circa 250 mila medie e grandi imprese.
GLI INTERESSI PRIMA DI TUTTO. Ma il problema vero non è rappresentato dal fatto che gli “amici degli amici” molto spesso siedono nei salotti di casa nostra. Ciò che non è stato detto finora è che per le banche (e i banchieri-top manager) gli “amici degli amici” non esistono più quando poi i loro interessi (anche personali) non sono garantiti. Esiste la “mala gestio” perché i banchieri hanno largheggiato (è divenuta “cultura” creditizia) in finanziamenti concessi con leggerezza a tutti (anche ai non “amici”) senza curarsi che gli investimenti dei beneficiari fossero sicuri e redditizi.
E a tal proposito mi piace raccontarvi un episodio particolarmente significativo che riflette in modo eloquente tutto quello che abbiamo detto e rappresenta al meglio l’essenza di come il sistema bancario può arrivare a maltrattare qualcuno dopo essersene servito e averlo dissanguato. Anche se si tratta di un “amica degli amici”. Io ho vissuto la vicenda da protagonista, conosco dunque i retroscena e ho le prove di ciò che sto per raccontare.
QUELL’AMICIZIA IN DIREZIONE. È il 2007. La Bufra srl (nome di fantasia) è una piccola azienda che si occupa, per effetto di un know-how di notevole spessore, di organizzazioni di grandi eventi: convention per Telecom, Olivetti ad esempio, e altre grandi multinazionali.
A un certo punto, vista l’amicizia di un suo parente con il direttore generale della banca per cui lavoro, Francesca – questo il nome dell’amministratore nonché soggetto economico della società – entra in contatto diretto con il top management.
Scoperto di 200 mila euro in 12 ore
Ricordo benissimo il momento in cui ricevo la telefonata dalla sede centrale di Bologna. Stavo giocando a calcetto ma avevo lasciato, come d’abitudine, il cellulare acceso a bordo campo, in caso di chiamate urgenti. E in effetti quella era piuttosto importante.
Dall’altro capo il direttore Sud Italia dell’istituto mi dice: «Imperatore, domani mattina viene da te la signora Francesca della Bufra srl. Mettiti a sua disposizione perché lei sarà l’organizzatrice di tutte le nostre convention aziendali per i prossimi dieci anni».
UNA PROCEDURA ANOMALA. Mi dice, inoltre, di predisporre per lei uno scoperto di conto corrente di 200 mila euro entro 12 ore, cioè entro l’orario dell’incontro con la donna.
Guardo l’orologio: le 19.30. Gli uffici sono chiusi già da un pezzo.
Lascio perdere la partita e corro a farmi una doccia, poi “schizzo”in banca per cominciare una procedura alquanto anomala: fino a quel momento non c’era alcun elemento di giudizio – bilanci, visura catastale, informazioni settoriali, etc – né alcuna richiesta scritta di fido da parte della signora Francesca, che in quei giorni si trova in Germania per organizzare la prima convention del nuovo sodalizio Banca-Bufra.
LE PRESSIONI DALL’ALTO. Per operazioni simili vi è un iter d’istruttoria rigido e prescritto che mai prima d’ora era stato violato: sebbene io stia incorrendo in un esercizio non idoneo della funzione creditizia, sollecitato “dall’alto”, attivo lo stesso la procedura.
Prima di dare «l’ok» definitivo, però, come prassi, chiamo il direttore crediti per comunicargli la situazione ma egli si oppone, mi intima di non procedere e di non autorizzare quel tipo di prestito perché la Bufra, secondo una sua verifica istantanea, «è un’azienda troppo poco capitalizzata e il giro d’affari che ha non consente quell’affidamento. Sarebbe meglio, se proprio dobbiamo, concedere un finanziamento per ricapitalizzazione».
LINEA BOLLENTE. La discussione si protrae a lungo, spiego al collega chi sia questa signora (e soprattutto chi la sponsorizza) ma lui non ha intenzione retrocedere di un passo a meno che, sfidando la buona regola della fiducia incondizionata nelle parole del “capo supremo”, «non riceva una richiesta scritta da parte del direttore generale della banca».
È ormai notte. Guardo il telefono sulla mia scrivania per oltre 20 minuti e poi mi decido a chiamare. Contatto il “numero uno”, il grande capo, al quale sottopongo la questione. La sua risposta è eloquente: «Che cazzo stai dicendo?».
Io, quasi balbettando, spiego meglio l’accaduto. Mi dice di stare tranquillo che ci avrebbe pensato lui. Il tempo di attaccare e mi cerca al cellulare il braveheart direttore crediti: «Tutto ok, possiamo procedere» con una voce da oltretomba. Posso immaginare cosa sia avvenuto in quei due minuti…
Un favore che non si rivela tale
Dunque, in poche ore vengono concessi 200 mila euro sulla fiducia. Ma a cosa servono quei soldi? E soprattutto, sicuri che siano erogati sulla fiducia?
Facciamo un passo indietro. La donna aveva chiuso l’accordo con i tedeschi qualche mese prima e, come da contratto, doveva avere da noi i soldi da anticipare ai fornitori di Berlino. Senza dare troppe spiegazioni, i miei superiori, prima rimandano il pagamento poi, a due giorni dall’evento, le comunicano che non è possibile autorizzare il versamento fino a evento concluso.
Lei a quel punto è costretta a cacciarli di tasca propria e minaccia – se non la rimborsano immediatamente – «di mandare a monte tutta la convention» per la quale sono attese 2.500 persone da tutta Europa. La situazione si fa tesa ed è a quel punto che ricevo la telefonata per mettere a disposizione i 200 mila euro di fido. Mi impongono di spiegarle «che il prestito è momentaneo e che a chiusura del meeting avrebbe ricevuto tutto il dovuto e non avrebbe pagato un centesimo di interessi sul fido qualora l’avesse utilizzato».
FIDUCIA MAL RIPOSTA. A quel punto, fidandosi delle rassicurazioni della banca, si parte per la Germania. Il meeting si fa ed è un successo.
A una settimana dal rientro, Francesca comincia a passare in banca tutti i giorni per chiedere quando sarebbe stato possibile rientrare dei soldi anticipati ai fornitori ed estinguere il fido. Di denaro non se ne parla ma poiché la nostra banca per lei rappresenta il committente più importante, non fa un fiato.
Francesca, a quel punto, fidandosi ancora delle nostre rassicurazioni e non avendo altra liquidità, inizia a utilizzare i soldi del fido. Non solo, pensando di essere una “privilegiata”, sempre per via dell’incarico conferitole per gli eventi, sottoscrive sotto nostro suggerimento delle polizze assicurative e qualche derivato.
ANCHE L’ACCORDO SALTA. Morale della favola: Francesca incasserà quei 200 mila euro solo un anno più tardi ma nel frattempo sarà costretta (sempre perché tenuta sotto scacco dall’accordo commerciale di 10 anni) a saldare a sue spese le fatture dei fornitori tedeschi per un totale di «2 milioni e 356 mila euro». Fatture di cui ho ancora copia.
La donna, sempre rassicurata da me e altri colleghi, è costretta a chiedere allora ulteriori fidi alla nostra banca che a quel punto comincia ad applicare eccome gli interessi.
Dopo tre anni, dulcis in fundo, salta l’accordo tra noi e l’azienda: alcuni giochi di potere, nuovi equilibri e la rotazione dei consiglieri di amministrazione fanno cadere la scelta su un’altra impresa che organizza eventi.
A conti fatti, tra quello che ha pagato per i prodotti finanziari e tassi alle stelle, Francesca riprende a malapena la metà del denaro anticipato. Da quello che so, oggi la Bufra ha dichiarato default.