By: gestione
Processo (immaginario) alle banche: ergastolo
Tratto da Lettera 43
La rubrica Lo sportello da oltre un anno racconta il mondo delle banche e della finanza con la voce e la penna (o la tastiera) di chi lo vissuto in prima persona.
PROCESSO IMMAGINARIO. Stiamo raccontando tutto e – purtroppo non ce ne vantiamo – abbiamo anticipato (di circa un anno) anche ciò che sta iniziando a emergere nel sistema bancario: i reati commessi.
E allora questa volta, tra il serio e il faceto, vogliamo riassumere un anno di collaborazione con Lettera43.it con un immaginario ‘processo’ alle banche.
Imputato banca, ecco i reati che le vengono contestati
Partiamo facendo una precisazione: si definiscono reati quelle azioni, commesse od omesse, vietate dall’ordinamento giuridico a cui si ricollegano delle sanzioni e delle pene.
INDUZIONE AL FALSO IN BILANCIO. Ebbene, l’induzione al falso in bilancio commesso dalle banche (oltre al falso nel bilancio delle stesse) è un reato.
Vendere ad aziende polizze assicurative, diamanti, gestioni fiduciarie sapendo che sono solo escamotage per permettere all’imprenditore di accantonare denaro frutto di evasione non è induzione al falso in bilancio?
EVASIONE FISCALE E USURA. Inoltre, l’evasione fiscale diventa reato quando supera determinate soglie e prevede, in certi casi, una reclusione fino a sei anni.
E poi c’è l’usura, anch’essa un reato, punita dall’articolo 644 del codice penale che prevede una reclusione fino a 10 anni.
Ma le banche, in particolare i loro dipendenti, hanno mai realmente pagato penalmente qualcosa?
No, neanche quando colti in castagna. Al massimo gli istituti sono stati costretti a risarcire la vittima.
ESTORSIONE. E ancora: l’estorsione è sancita con l’articolo 629 del codice penale ed è commessa da chi, con violenza o minaccia, costringa uno o più soggetti «a fare o a non fare qualche atto al fine di trarne un ingiusto profitto con altrui danno».
Anche in questo caso la pena prevista è la reclusione fino a 10 anni.
È esagerato chiamare estorsione quella esercitata della banca quando utilizza la minaccia della segnalazione in sofferenza alla Centrale rischi per ottenere il pagamento di somme non dovute?
Somme in cui figurano: anatocismo (interessi sugli interessi), tassi usurari, spese non contemplate, commissioni di massimo scoperto oggi camuffate come Dif e Civ.
Quante volte il cliente, proprio per scongiurare questa segnalazione, ha pagato cifre rilevanti e non giustificate come accertato spesso in fase processuale?
Tante, tante volte. Ma nessuno della banca ha mai pagato penalmente.
VIOLENZA PRIVATA. E poi: il reato di violenza privata si configura, invece, secondo l’articolo 610 del codice penale, quando «chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa».
La pena prevista è la reclusione fino a quattro anni.
Quante volte un cliente, pressato psicologicamente per il rinnovo degli affidamenti, si è visto costretto a firmare e sottoscrivere atti e contratti che altrimenti non avrebbe accettato?
Anche il “semplice” acquisto di un televisore o di una polizza potrebbe rientrare in questo meccanismo perverso?
Attenzione, perché la violenza privata non va confusa con l’estorsione: per commettere la prima non è necessario che il soggetto «abbia procurato a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno».
CORRUZIONE. Nelle storie affrontate e denunciate nei miei libri è emersa anche corruzione: costantemente al centro del dibattito politico e parlamentare e grande male del Paese.
Quei privilegi ottenuti dal bancario attraverso i clienti; quei «favori» ricevuti sfruttando l’attività professionale dell’imprenditore, spesso costretto a dire di sì per la sua posizione di svantaggio rispetto alla banca, non profilano un reato simile?
Come scrissi nel libro Io so e ho le prove, e nessuno ha mai smentito, «il viaggio si prenota nell’agenzia di viaggi di un cliente, l’auto si ripara nell’autofficina del cliente, la casa si ristruttura servendosi dell’azienda edile del cliente, la moglie del manager rinnova il suo guardaroba nella boutique del cliente, il pieno di benzina si fa dal distributore cliente e via all’infinito». E così è tutt’oggi.
Sentenza: ergastolo. Ma anche le Pmi condannate ai servizi sociali
E allora perché ciò che è sancito come illecito da parte della giustizia civile (basta andare sul web e digitare «sentenze usura» per capire quante sconfitte hanno subito le banche che hanno dovuto “semplicemente” restituire il maltolto) non trova mai, per la lobby bancaria, un responsabile che paghi una pena?
I GIUDICI VANNO AIUTATI. Arrivati a questo punto del processo immaginario, così come già ripetuto su queste pagine web, non dobbiamo accettare per principio ideologico l’idea di una magistratura asservita e poco coraggiosa; i giudici vanno aiutati anche con il nostro coraggio: quello di chi denuncia.
Ma anche con la determinazione al cambiamento che soprattutto le piccole imprese devono necessariamente realizzare nei loro criteri di gestione.
E allora, al termine di questo processo sui generis, dopo aver dato la parola all’accusa e alla difesa, tutti in piedi.
CONFISCA DEI BENI. Il giudice con tono enfatico inizia a leggere: «In nome del popolo italiano le banche dovrebbero ricevere una sanzione proporzionale al danno cagionato all’ordine economico e all’intensità della colpa e quindi soltanto il linciaggio potrebbe essere una pena equa in quanto sanzione che nella fase esecutiva postula il pieno coinvolgimento del popolo. Ma non essendo tale pena prevista nel nostro ordinamento, gli istituti di credito, per la sommatoria degli anni di reclusione previsti dai vari reati ascritti – usura, induzione al falso in bilancio, induzione alla evasione fiscale, violazione della privacy, estorsione, violenza privata – sono condannate all’ergastolo e soprattutto alla confisca allargata e per equivalente dei beni dei vertici degli istituti in misura non inferiore ai profitti illecitamente ricavati».
FORMAZIONE PER LE IMPRESE. Urla di gioia da parte dei parenti delle vittime, abbracci con gli avvocati della difesa, ma il giudice zittisce tutti subito replicando: «Signori, non ho ancora terminato…» e continua, nel silenzio assoluto.
«Le imprese certamente non concorrono con previsione e volontà alla realizzazione dei misfatti che gli istituti di credito perpetrano in loro danno. Certamente può dirsi però che gli imprenditori colposamente cooperano al processo di determinismo causale che conduce al conseguimento degli scopi di massimizzazione dei profitti delle banche. Facendo ricorso al credito “istituzionale” e a metodi gestionali ormai superati e anacronistici, le imprese furbastre immaginano di tenere al riparo i patrimoni personali dei capitani d’impresa. E invece, così facendo, con le loro mani, si scavano la fossa dove le seppellirà la ferocia degli istituti. Anche l’azienda è quindi colpevole perché spesso quei reati si consumano con la cooperazione colposa della vittima. Condanno pertanto le piccole imprese a due anni intensi di servizi sociali attraverso un percorso di formazione in cultura aziendale finanziato, questo sì, dalle banche».
L’udienza è tolta.