
Il libero mercato ci ha fregati. Anche l’America ora lo ammette
7 Aprile
A volte anche i manuali di economia vengono smentiti. E quando accade, a farlo non è un professore, ma la realtà.
Per anni ci hanno insegnato che il libero mercato fosse la soluzione a ogni problema. Che se lasciamo fare alle imprese, ai capitali e alle merci, tutto andrà per il meglio. La globalizzazione era vista come un treno veloce che portava sviluppo, benessere, occupazione. Ma già da qualche anno quel treno si è fermato in una stazione sbagliata. E il Paese che più ha creduto in questa visione, gli Stati Uniti, è il primo a cambiare direzione.
Trump ha rilanciato la guerra dei dazi, e Biden – nonostante il cambio di tono – non ha davvero invertito la rotta. L’America oggi vuole proteggere il proprio mercato. Ma perché? Cerchiamo di semplificare i concetti
Immagina una famiglia che compra tutto all’estero, anche il pane. E per pagarlo, ogni mese fa un prestito.
Questa famiglia vive in una bella casa, ha una buona reputazione, le banche le prestano volentieri soldi. Ma prima o poi, i debiti si sommano e diventano insostenibili. È quello che è successo – su scala gigantesca – agli Stati Uniti.
Per decenni gli USA hanno comprato più di quanto vendessero. Importavano auto, elettronica, vestiti, materie prime, e in cambio davano dollari. Il resto del mondo, con quei dollari, comprava titoli del debito americano. Così il ciclo andava avanti. Ma questo sistema ha portato a una conseguenza grave: le aziende americane hanno chiuso, il lavoro si è spostato all’estero, e milioni di persone sono rimaste indietro.
Le grandi metropoli sono cresciute. Ma le zone rurali, le piccole città industriali, i lavoratori manuali? Per loro la globalizzazione è stata un incubo. Fabbriche dismesse, stipendi da fame, disoccupazione, overdose di rabbia e rassegnazione.
Così sono arrivati i dazi: non per punire gli altri, ma per sopravvivere.
Un dazio è come una tassa su un prodotto che arriva dall’estero. Serve per rendere quel prodotto meno conveniente e spingere i consumatori a comprare “made in USA”. È una mossa drastica, ma ha un obiettivo chiaro: difendere il lavoro americano.
Chi pensa che sia solo propaganda elettorale, sbaglia. È una reazione a un problema reale. E lo dico con chiarezza: Trump non lo avrei mai votato. Non condivido né il suo stile né molte sue posizioni. Ma questo non può impedirmi di riconoscere quando una scelta politica nasce da un’esigenza concreta e strutturale. Perché non si può continuare ad avere un sistema dove pochi vincono e tanti perdono. E quel sistema – diciamolo – è nato proprio negli Stati Uniti, con l’idea che il mercato si regola da solo. Oggi anche loro si stanno ricredendo.
Ma non finisce qui. C’è un’idea ancora più estrema che sta facendo il giro della Casa Bianca: mettere tasse anche sui soldi, non solo sulle merci.
Sembra assurdo, ma ha una logica. I consiglieri economici più radicali sostengono che non basta fermare i prodotti stranieri. Bisogna anche bloccare i capitali che arrivano da fuori e comprano titoli americani o azioni a Wall Street. Perché questi capitali fanno salire il valore del dollaro, rendendo le esportazioni americane più difficili. È come se l’America fosse costretta a giocare una partita truccata, con il pallone che pesa solo dalla loro parte.
L’idea è quindi quella di mettere una sorta di “tassa di ingresso” per chi vuole investire in attività finanziarie americane. Un po’ come un biglietto d’ingresso. Un esempio simile? Pensa a una fiera: se entra troppa gente e i prezzi si alzano troppo, l’organizzazione mette un limite o fa pagare un ticket. Qui il ticket si chiama “Tobin Tax”, ed è pensato per frenare gli investimenti speculativi.
Ma una mossa del genere è un terremoto. Wall Street vive di flussi di capitale. I titoli di Stato americani sono considerati il rifugio più sicuro del mondo. Se si comincia a mettere tasse o limiti sugli investimenti stranieri, gli investitori potrebbero scappare. I rendimenti potrebbero salire, i mercati crollare. È un rischio enorme. Ma negli USA c’è chi è pronto ad accettarlo pur di cambiare le regole.
Il problema, però, è globale. E riguarda anche l’Europa.
Noi, che spesso ci limitiamo a osservare e commentare, rischiamo di pagare il conto senza nemmeno partecipare alla discussione. Se l’America cambia le regole del gioco, l’Europa cosa fa? Sta a guardare? Subisce? Oppure prova finalmente a proporre un nuovo modello?
La verità è che il tempo del “lasciar fare” è finito. I mercati, senza regole condivise, non garantiscono equità né stabilità. Lo abbiamo visto con la crisi del 2008, con la pandemia, e ora con la guerra commerciale e finanziaria che si sta riaprendo. È il momento di pensare a un nuovo equilibrio.
In conclusione: o si scrivono nuove regole insieme, o ognuno scriverà le proprie. E sarà caos.
L’America ha lanciato un segnale forte: non si può più sostenere un sistema che produce solo diseguaglianza e dipendenza finanziaria. Lo fa con i dazi, lo farà – forse – con i controlli sui capitali. Non è la strada ideale, ma è una strada. E spesso chi sta male non cerca soluzioni perfette, ma soluzioni immediate piuttosto che restare immobile.
Il vecchio modello liberista, che sembrava eterno, è entrato in crisi. Chi non se ne accorge, è destinato a restare indietro. E a pagare il prezzo di scelte non fatte.