Le banche, alleate silenziose dell’evasore fiscale
25 Novembre
Le banche in Italia sono complici silenziose e discrete dell’evasione fiscale. E’ un fatto culturale, radicato a tutti i livelli della gerarchia aziendale, che permea l’intera struttura degli istituti di credito, dai vertici strategici fino agli sportelli. È come se l’intero ecosistema bancario, come raccontato in “Io so e ho le prove – 10 anni dopo”, fosse plasmato da una mentalità che normalizza certe pratiche, trasformandole in routine accettate, o peggio, in soluzioni ingegnose. Questa complicità culturale non nasce da un’azione isolata, ma si alimenta con la tacita approvazione di ogni livello, che, consapevole o meno, contribuisce al perpetuarsi di comportamenti che facilitano l’evasione.
Cominciamo dai piani alti, dove il top management progetta, costruisce e “invita” la rete delle filiali a commercializzare prodotti che sembrano usciti da un manuale per l’evasore fiscale 2.0. Un esempio?
Le intestazioni fiduciarie, società, di solito di diritto estero (Liechtenstein, Lussemburgo, ecc), che ogni gruppo bancario ha al suo interno, che garantiscono l’anonimato nei confronti di terzi e quindi anche del fisco. Tu cliente puoi cedere il patrimonio e scomparire facendo perdere le tracce. Un bel conto “fantasma” intestato alla fiduciaria con tanto di codice segreto inaccessibile a tutti. James Bond? No, semplicemente banca.
E chi si ricorda i diamanti? Qualche anno fa, alcune banche pubblicizzavano sulle loro brochure queste pietre (non tanto) preziose come «prodotti fiscalmente neutri» e che rimangono «anonimi nei confronti del fisco». Un chiaro messaggio subliminale per il risparmiatore allergico alle tasse. Per fortuna, grazie a denunce come quelle di “Io so e ho le prove”, questo “giochetto” è finito sotto processo e fuori mercato. Piccole soddisfazioni.
Ma non fermiamoci ai piani alti. La connivenza fiscale si manifesta anche agli sportelli dove l’evasione non si vede. O, meglio, non si può vedere. Un gioco di prestigio ben orchestrato, in cui ciò che dovrebbe essere trasparente rimane abilmente nascosto tra cavilli e opportunità ‘discrete’.
Un esempio? Le “cassette di sicurezza”, il prodotto bancario più venduto negli ultimi anni, un vero e proprio servizio di custodia offerto dagli istituti di credito a tutti i loro clienti; in pratica un contenitore, di diverse dimensioni, posizionato all’interno del caveau della banca dove poter depositare anche il denaro contante.
Quello che occorre sapere, a tal proposito, è che l’Agenzia delle Entrate, in un normale accertamento fiscale, non può chiedere l’apertura di una cassetta di sicurezza. Questo tipo di attività è effettuata solo quando vi sono importanti indizi di evasione fiscale o riciclaggio di denaro a carico del soggetto sottoposto a controllo. Ad esempio, in caso di accertamenti basati sul redditometro, oppure nel caso di accertamenti reddituali (su lavoratori autonomi o imprenditori), o in caso di una fattispecie di omessa dichiarazione dei redditi.
Vi assicuro che, in circa 25 anni di carriera nel management bancario, ho assistito solo due volte all’apertura forzata di una cassetta di sicurezza da parte di un magistrato o della Guardia di Finanza. A tal proposito, però, occorre tener presente che qualche giorno prima dell’apertura forzata, gli investigatori di solito richiedono alla direzione della filiale l’elenco dei rapporti bancari intestati al nominativo sospettato E, guarda caso, una volta aperta la cassetta, non c’era mai nulla di compromettente dal punto di vista fiscale.
Forse perché qualcuno, casualmente, aveva ‘avvisato’ il proprietario, dandogli tutto il tempo per svuotarla? Difficile da dimostrare, certo. Ma di questi ‘miracoli’ ne accadono fin troppi per credere alle semplici coincidenze.
E veniamo al comportamento di complicità più frequente che si riscontra quando avviene un lutto in famiglia e il de cuius possiede delle disponibilità liquide su un conto corrente. Se voi poteste avere accesso all’anagrafe delle banche, riscontrereste che il morto ha quasi sempre effettuato un bonifico bancario a un parente qualche ora prima della fine della sua vita terrena.
Vi siete mai chiesti perché?
Questo ultimo atto di generosità del defunto non solo “semplifica” la procedura di successione degli eredi nei rapporti bancari ma soprattutto evita, soprattutto quando si tratta di ingenti somme, il pagamento della relativa imposta.
L’imposta di successione parte da un minimo del 4% sino a un massimo dell’8% del patrimonio del defunto, in base al suo vincolo di parentela con gli eredi. Per il coniuge e i figli, l’entità della tassa è del 4% e prevede una franchigia pari a 1 milione di euro a testa. Se ad esempio il patrimonio non supera il milione, non va pagata alcuna tassa, se è superiore si pagherà il 4% sull’importo in eccesso. Lo stesso meccanismo si applica ai fratelli, che devono invece pagare il 6% con una franchigia di 100mila euro ciascuno, mentre tutti gli altri parenti devono versare sempre il 6%, ma senza avere diritto ad alcuna franchigia. A tutti gli altri soggetti si applica un’aliquota pari all’8%.
Parliamoci chiaro: questa tassa può pesare parecchio. Ma In Italia, si sa, occorre sempre rispettare l’ultima volontà del de cuius: un bonifico tempestivo, prima di morire, mette al sicuro eredi e capitali, evitando inutili scocciature con lo Stato.