Affidiamo il futuro delle imprese ai millennials: ma a una condizione
9 Ottobre 2023
Per me non si tratta solo di un interesse accademico: ho un figlio millennial, i germani dei miei amici appartengono tutti alla Generazione Y, vivo in un’azienda dove l’età media dei miei collaboratori è 28 anni e in tutte le imprese che seguo per la professione la presenza di millennials è mediamente del 70%.
Ma non sono il solo. Negli ultimi anni molti si sono concentrati sulle sfide della Generazione Y (o millennials), l’ultima generazione di lavoratori, nati tra il 1981 e il 1996, ad arrivare nei luoghi di lavoro.
Perché ci si è resi conto che quando un’organizzazione dipende così tanto dall’esperienza che il cliente vive con chi lavora a contatto con il pubblico, è impossibile mettere tutte le decisioni rilevanti nelle mani dei capi più anziani. In qualche modo l’organizzazione dovrà essere gestita in modo tale che i dipendenti giovani e a contatto con i clienti siano dedicati alla mission dell’azienda e intelligenti abbastanza da essere considerati degni di fiducia per prendere decisioni e iniziative che vadano nella giusta direzione.
Tradizionalmente, le aziende fanno affidamento sui giovani neo-assunti affinchè portino più zelo che competenze. Con i millennials questo cambia. È un contingente certamente più smart: le persone giovani sono oggi capaci di mettere le mani su grandi volumi di informazioni rilevanti, indipendentemente dall’esperienza o dalla posizione. E ciò che più conta, i collaboratori della Gen Y cresciuti con i social media hanno competenze particolari nel mettere assieme delle soluzioni, e inoltre sanno come mettere in movimento i loro network. Nel mondo di oggi, questa abilità nel raccogliere velocemente le informazioni e trarne un senso, e quindi rispondere in tempo reale spesso è più importante dell’esperienza.
Aggiungete a questa capacità la generale insoddisfazione per lo status quo che deriva dal fatto che hanno ereditato un paese con un mercato del lavoro completamente diverso da quello che abbiamo vissuto noi boomers (nati tra il 1945 e il 1964) e i driver per un forte cambiamento positivo ci sono tutti.
Ma un vero cambiamento si produrrà solo se i collaboratori millenials saranno sufficientemente dediti al lavoro da voler fare la differenza.
Sfortunatamente, esperienze recenti mostrano che questo impegno spesso manca. Un modo per generare coinvolgimento nei lavoratori della Gen Y consiste nel fare appello al loro senso di interconnessione con il mondo e credere nel loro potenziale in quanto agenti di cambiamento. Ma questi sforzi non sono sufficienti. La mia opinione è che un vero coinvolgimento nel lavoro arriva come risultato di quanta fiducia concediamo loro nel prendere decisioni per mettere in pratica le azioni giuste utilizzando le risorse a loro disposizione.
Quando le decisioni sono prese da alti dirigenti lontani dalla front line c’è poco da stupirsi se i lavoratori della Gen Y siano poco entusiasti nell’implementarle! Date loro il potere di iniziare velocemente a mettere in pratica idee innovative e il coinvolgimento ne conseguirà.
Ma in questo scenario, qual è il compito del capo? Gli imprenditori/manager dovrebbero esistere per sostenere gli energici sforzi di giovani lavoratori mettendoli nelle condizioni giuste e guidandoli anziché decidendo e dirigendo. Devono fornire un maggior accesso ai network di conoscenza e collaborazione. Dovrebbero rendere semplice ai loro dipendenti la costruzione di network orizzontali che estendano i confini organizzativi e attingano ad aree diverse di expertise. Dovrebbero dare ai dipendenti la possibilità di fuoriuscire temporaneamente dalle linee di gestione formali e unire le forze in modo fluido per reagire alle opportunità di mercato.
Ed ecco un’altra idea audace: il management può essere responsabilizzato in questo ruolo invertito.
Nelle aziende che seguo introduco sempre una valutazione di tipo bottom–up. E’ la valutazione espressa (in maniera anonima per evitare rappresaglie) da un insieme di persone nei confronti di un soggetto con livello organizzativo superiore. Si parla di valutazione bottom-up quando, per esempio, si chiede a un gruppo di collaboratori di prendere in considerazione i comportamenti del proprio responsabile. Rappresenta il punto di partenza per avviare percorsi di sviluppo del management e diventa il presupposto per valorizzare le potenzialità del singolo, in modo coerente alla cultura e agli obiettivi strategici dell’organizzazione. Come? Discutendo in plenaria i risultati aggregati!
Nella maggior parte delle aziende il vero valore è creato in quella che io chiamo la “zona del valore”, dove il lavoro dei dipendenti è indirizzato direttamente a risolvere il problema del cliente.
Il mio consiglio è di aspettarsi di vedere elevati livelli di impegno prima di consentire ai giovani dipendenti di entrare in quella zona.
Ma lasciamo libere le loro capacità e poi facciamoci da parte.