La tassazione degli extraprofitti e piccoli imprenditori
12 Agosto 2023
Si avvicinano tempi duri per i piccoli imprenditori, storicamente gli agnellini più sacrificati sull’altare del profitto delle banche. E’ vero che la scure si abbatterà su tutti i correntisti, ma le sofferenze psicologiche ed economiche che vivranno nei prossimi mesi i piccoli imprenditori non potete neppure immaginarle.
Stiamo parlando delle ripercussioni dettate dal provvedimento, ancora in fase di elaborazione definitiva, del governo di tassare gli extraprofitti (sarebbe meglio dire extra-ricavi, perché il margine di intermediazione è una componente dei ricavi) delle banche. Una disposizione giusta perché in questo caso non si tratta di sovra-tassare le capacità manageriali ed imprenditoriali dei banchieri, ma solo una fortuita congiuntura finanziaria che l’ingordigia di taluni nell’adeguare i tassi attivi e passivi ha trasformato in una sorta di vincita al superenalotto (e quelle vincite si tassano).
Dicevamo: un provvedimento giusto, ma ancora monco perché mancano misure di tutela per i clienti (soprattutto prenditori di danaro). Si rischia di prendere (il governo) quei miliardi da un lato per sostenere la riduzione delle tasse e le spese relative ai mutui per l’acquisto della prima casa per famiglie in difficoltà e di restituirli (i cittadini e i piccoli imprenditori) dall’altro sotto forma di aumento dei tassi (ancora?) e, soprattutto, di tutte le altre commissioni e spese, spesso occulte o difficilmente individuabili, che sostiene il cliente di una banca.
Ho vissuto e raccontato momenti simili. Io so e ho le prove di come le banche mettono a posto i conti a ridosso delle chiusure trimestrali di bilancio attraverso “manovre massive sugli interessi e sulle commissioni”. Funziona pressappoco così. I vertici dell’istituto di credito programmano, con largo anticipo (di norma, all’inizio del trimestre), un progressivo e millimetrico incremento dei tassi di interesse debitori (attivi per la banca) e di alcune commissioni (ad esempio il compenso per la Disponibilità dei Fondi oppure le spese per bonifici, o ancora il costo della semplice scrittura contabile di accredito o addebito sul conto corrente). Aumenti minimi, ma che significano grosse cifre per i forzieri delle banche. È difficile che il correntista se ne renda conto perché quasi nessuno si preoccupa di leggere gli estratti conto trimestrali o, peggio ancora, si arma di calcolatrice per verificare che il saldo debitore, con l’applicazione degli interessi e delle spese concordate, sia quello corretto. Statistiche alla mano, solo il 3% dei clienti si accorge di questa manovra surrettizia e fraudolenta, peraltro solo dopo l’arrivo a casa degli estratti conto trimestrali, ossia con 90 giorni di ritardo, durante i quali, comunque, la banca ha succhiato dal conto. E, ovviamente, bussa alla porta della propria filiale per chiedere spiegazioni quando non decide, invece, di scagliarsi contro il primo impiegato allo sportello, davanti alla fila dei clienti. Un altro 97% si deve mangiare la foglia!
Ma è possibile che le banche cambino unilateralmente i tassi applicati al correntista o le condizioni contrattuali? Sì, ma solo a determinate condizioni stabilite dall’articolo 118 del Testo unico bancario.
Le banche, infatti, a norma di legge, possono apportare modifiche unilaterali al contratto solo in presenza di un valido motivo che provi un più alto coefficiente di rischio a carico dell’istituto, come ad esempio il caso in cui la garanzia offerta dal cliente avesse una diminuzione di valore oppure il rating dell’azienda peggiorasse. Ricordiamo che il rating creditizio è prodotto da un algoritmo interno della banca che può manovrare, in assoluta autonomia, migliaia di parametri per peggiorarlo. Basta girare una chiavetta e, oplà, diventi improvvisamente come Calimero.
Inoltre, per essere legittime, le modifiche devono essere comunicate al cliente personalmente e in modo formale, con adeguato preavviso (60 giorni) e con l’avvertenza esplicita che, qualora il cliente volesse recedere dal contratto, potrebbe farlo prima dell’entrata in vigore della modifica. Attenzione, però, perché il preavviso e la facoltà di recedere dal contratto non è prevista per le clausole aventi ad oggetto commissioni e spese diverse dai tassi di interesse. In altri termini, nel caso in cui la banca modifica commissioni e spese, se tutto va bene te ne accorgi dopo tre mesi. Se invece la modifica riguarda i tassi di interesse, nel caso in cui la banca voglia modificare unilateralmente le condizioni contrattuali, ti deve avvisare 60 giorni prima della applicazione dei nuovi prezzi per consentirti, in questo lasso di tempo, di andare a negoziare l’accettazione o la rinuncia dei nuovi requisiti d’affari.
E qui, come dicevamo, soprattutto per il piccolo imprenditore, inizia una vera e propria violenza psicologica per costringere il titolare del conto a sottoscrivere l’accettazione delle condizioni. Ricatti subdoli (“se non firma, la direzione potrebbe decidere di revocare i fidi”), ipocrite minacce (“il suo rating creditizio potrebbe peggiorare per l’intero sistema bancario”) e perfide raccomandazioni (“con questa firma, lei acquista la benevolenza della direzione della banca”) formano il catalogo delle pressioni che i bancari utilizzano per alimentare, nella negoziazione, la condizione psicologica down del contraente debole.
La legge insomma è sicuramente dalla parte del correntista e le banche lo sanno, per questo tentano di sistemare in maniera subdola posizioni palesemente irregolari, che non hanno rispettato i criteri minimi di legittimità. C’è quindi un principio giuridico generale che stabilisce che ogni modifica perpetrata in modo unilaterale senza giustificato motivo rappresenta una grave irregolarità. Se denunciata, può rendere addirittura nullo il contratto. Ma chi ha il coraggio di denunciare?
Il governo aiuti i piccoli imprenditori inserendo dei paletti che limitino le possibilità di manovra delle banche e amplifichino le voci dei tartassati.