Solo se le competenze non sono precarie, il lavoro non è precario!
“Vorrei cambiare lavoro, magari scegliere la libera professione, perché nella mia attuale azienda non cresco e non imparo nulla di più di quanto già metabolizzato”, la risposta più frequente che ricevo durante i processi di selezione del personale per piccole e medie imprese da parte dei giovani.
Da recenti rilevazioni statistiche sembrerebbe che i giovani non sognino più il rapporto a tempo indeterminato come unica soluzione alle incertezze che caratterizzano questo periodo. Non si identifica insomma la sicurezza del lavoro con la sua protezione giuridica.
Ma a coloro che, nonostante le insoddisfazioni per la crescita professionale, ancora pensano che il “posto fisso” rappresenti una assicurazione a vita di stabilità da accettare obtorto collo, occorre far presente che nell’ economia reale però, quella certezza non può essere garantita “per legge”.
Il ciclo di vita delle imprese si sta infatti accorciando drasticamente. Le aziende sono meno stabili, soggette al mutare degli scenari economici, all’ingresso di nuovi competitori (magari situati all’altro capo del mondo), alla presenza di valori che possono subire forti oscillazioni o rivelarsi inaffidabili, all’instabilità delle monete, al mutare dei gusti e delle mode ecc., in una parola alla maggiore complessità dell’economia globale. In buona sostanza la durata media delle imprese si sta drasticamente riducendo. Nel 1962 risulta che le aziende consolidate rappresentavano più del 50%. Nel 2019, erano però meno del dieci per cento con una vita media di 12 anni. Se una persona dovrà lavorare almeno per quaranta e più anni, ecco che la flessibilità e la disponibilità al cambiamento devono essere parte del suo Dna. La vita media del lavoratore è molto superiore alla vita media dell’impresa che gli dà il lavoro! E il sicurissimo contratto di lavoro diventa carta straccia, con tutte le sue dichiarate sicurezze. In questo contesto non potranno rimanere immutate neppure le guarentigie del lavoro pubblico. Certamente tutti ci auspichiamo la nascita di nuove e agguerrite imprese in sostituzione di quelle obsolete che moriranno, ma se questo aspetto può dare speranza all’economia nel suo complesso, non si può dire altrettanto per quanto riguarda i loro dipendenti, se le loro competenze tecniche e manageriali avranno seguito le sorti dell’azienda per la quale lavoravano. La certezza del posto di lavoro, la capacità di trovare nuova occupazione, non dipenderanno dalla tipologia di contratto posseduto quanto piuttosto dalle opportunità che l’azienda avrà dato al lavoratore migliorandone nel tempo la competenza in modo da renderlo comunque adatto a una sorgente nuova impresa.
La quasi sicurezza di dover cambiare azienda una o più volte comporta quindi un’assunzione da parte del lavoratore di una propria individuale responsabilità. Non potendo confidare sulla stabilità, egli dovrà interessarsi all’andamento dell’impresa, chiedersi quali saranno le sue evoluzioni, domandarsi quale effettivamente sia il suo reale livello di utilità per essa, ma soprattutto dovrà prepararsi e tenersi pronto per un nuovo impiego. Per questo la richiesta più importante alla propria azienda (che potrebbe avere vita corta) da parte del lavoratore dovrebbe ragionevolmente essere quella di offrirgli costantemente opportunità di crescita professionale e di formazione, che si tramutano nella sonante moneta della futura occupabilità.
Solo così, interiorizzando la propria condizione di incertezza e preparandosi al cambiamento, ogni giovane dipendente potrà essere certo del suo futuro. Infatti non avrà alcun alibi in caso di cattivo andamento dell’impresa e non potrà aspettarsi che le eventuali conseguenze negative non siano un suo problema: anche i lavoratori a tempo indeterminato sono già oggi a tempo determinato.
Solo se le competenze non sono precarie, il lavoro non è precario! E non si tratta di un paradosso.