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Una rivolta senza attriti è un ossimoro
Ce lo insegna la storia: Le rivoluzioni non si fanno nei salotti
In un momento in cui tutti discutono animatamente, spesso sterilmente, sui fatti accaduti a Napoli, ho preferito non aggiungermi al coro dei commenti, anche questi inutili, istintivi o poco approfonditi.
Per tale motivo ho cercato, dapprima, di leggere, di capire, di non essere immediato nella analisi e soprattutto di fare riferimento alla storia.
La rivolta di Napoli, una reazione forte, a tratti violenta, condotta da un mix di un migliaio di contestatori, quelli sì accreditati, provenienti dal basso del mondo del commercio e della piccola imprenditoria e un piccolo gruppetto di facinorosi-delinquenti (hooligans, neofascisti e malviventi) che concertavano le azioni violente da intraprendere, ha ottenuto il suo parziale obiettivo: il blocco (almeno momentaneo) del lockdown regionale.
Un obiettivo che non erano riusciti ad ottenere le “penne” (o le dita) politically correct della stragrande maggioranza dei nostri influencer mediatici.
Un obiettivo che non aveva raggiunto neppure la nostra borghesia imprenditoriale che tuonava saccenti e pleonastici proclami dai salotti delle loro ville dorate poste sulla collina di Posillipo.
Loro sì, loro, quelli della rivolta di venerdì scorso, ce l’hanno fatta!
Sebbene con motivazioni simili ma basate su approcci sociali e legali completamente diversi: i primi, gli imprenditori e i commercianti onesti, per la perdita del reddito dovuta alla grave crisi economica che stanno vivendo; i secondi, disonesti e fuorilegge, per aver perso una fonte di reddito illegale (parcheggiatore abusivo, pusher della movida).
E se fossero stati, i primi, l’avanguardia di un movimento di insoddisfazione e insofferenza che cova in tutto il paese e che ora inizia a scoppiare anche in altre città (vedi Roma, Milano, Torino)?
In tal caso Napoli, forse (ripeto forse e lo capirete leggendomi fino in fondo), per l’ennesima volta nella sua storia, potrebbe scrivere una piccola pagina della evoluzione economica, sociale e politica del nostro paese.
Perché la storia ci insegna che le rivoluzioni sono l’espressione storica della evoluzione: dato un assetto di popolo, di religione, ma soprattutto di sistema economico, che non sia più corrispondente alle nuove condizioni, ai nuovi risultati politici, sociali, economici, ecc., esse li cambiano con inevitabili attriti.
Le sommosse e le rivolte che provocano, se pure ne sono una parte necessaria, sono solo un prodromo: è la rottura del guscio del pulcino maturo.
Uno dei suoi caratteri distintivi, però, è il successo, che può raggiungersi presto o tardi, secondo che sia più maturo o no l’embrione e secondo che siano i popoli e i tempi adatti alla evoluzione.
Un altro carattere è il suo moto lento e graduato, altra ragione questa del successo, perché allora è tollerato e subìto senza scosse; malgrado, non di rado, una certa violenza appaia necessaria contro i partigiani del vecchio che si trovano sempre, per quanto grandi siano le ragioni del nuovo.
Affinché si possa parlare di rivoluzione, essa deve essere più o meno diffusa, generale e seguita da tutto un paese; le sommosse, come quelle degli ultimi giorni, sono sempre parziali, opera di un gruppo limitato di caste o d’individui.
State certi, però, che alla rivoluzione non prendono parte quasi mai i ceti elevati, ben inteso quando essi non siano presi di mira dagli altri per livellarsi con loro.
Non possiamo però non dire che, talvolta, le sedizioni – anche qui la storia è buona maestra – rispondono a cause locali o personali, spesso determinate dall’imitazione, dall’alcool (o dalla droga), dal clima, e durano di una vita tanto più corta, quanto più vivace. Come non mirano ad altri ideali, così non raggiungono uno scopo o lo raggiungono, spesso, contrario al benessere generale e sono frequenti in popoli più manipolabili come nei ceti meno colti e assai più vi partecipano i criminali che gli onesti.
Le rivoluzioni invece appaiono sempre di rado, mai nei popoli poco progrediti, e sempre per cause assai gravi o per alti ideali; vi prendono parte più gli uomini appassionati, cioè i rei per passione o per necessità (non solo le masse ma anche scrittori, intellettuali, politici) che i criminali.
Così è che se le ribellioni cessano con la morte, anche non fisica (arresti e corruzione), dei capi, le rivoluzioni spesso, invece, si sviluppano. E benché gli inizi ne siano il più delle volte poco favorevoli, finiscono quasi sempre per trionfare, al contrario delle rivolte, vincitrici invece solo sul principio.
Il paese reale è stremato, chi soffre non è un facinoroso ed il governo sta scherzando con il fuoco. Vedremo.