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Rating di legalità, lo strumento a favore degli imprenditori, troppo spesso ignorato
Articolo a cura di Vincenzo Imperatore per Il Fatto Quotidiano
Se non si ottiene il credito, la colpa non è sempre delle banche. Sicuramente, così come argomentato la settimana scorsa, la causa va ricercata nei sistemi di credit scoring che ormai si basano su parametri obsoleti. Ma molto spesso anche gli imprenditori e i loro consulenti fanno fatica ad uscire dalla zona di comfort zeppa di cattive abitudini e pregiudizi.
Un esempio è dato dalla scarsa attenzione al cosiddetto rating di legalità, uno strumento orientato al riconoscimento e alla promozione della legalità e dei principi etici in ambito aziendale anche allo scopo di favorire l’accesso delle imprese al credito bancario e ai finanziamenti pubblici.
Una sorta di bollino blu per l’introduzione dei principi etici aziendali, che permette di migliorare la reputazione di mercato di una impresa che ottiene, in tal modo, un riconoscimento di azienda virtuosa.
Si tratta di un giudizio assegnato dall’Agcm (Autorità garante della concorrenza e del mercato), in presenza di determinati requisiti, alle imprese che ne abbiano fatto richiesta. Si tratta di 12 requisiti tra i quali, a puro titolo di esempio, ricordo l’assenza di condanne e di misure di prevenzione per reati tributari, per reati ex d.lgs. n. 231/2001 (responsabilità amministrativa) e per reati di mafia, l’iscrizione negli elenchi di fornitori (White List) esenti da infiltrazione mafiosa e la tracciabilità di tutte le transazioni finanziarie.
Il rating, in base al possesso dei requisiti, viene misurato da un minimo di una stelletta ad un massimo di tre stellette ed esprime un “indicatore sintetico” di aderenza e rispetto, da parte dell’impresa, di elevati standard di legalità. Vi sembrerà strano ma è la stessa Bankitalia che invoglia e suggerisce alle imprese di dotarsi di un rating di legalità.
Come evidenziato, infatti, dal report Bankitalia del novembre 2020, in cui sono stati pubblicati i dati delle imprese titolari di rating di legalità in relazione alla concessione di finanziamenti e all’ottenimento di benefici, risulta lampante l’apporto di tale titolo in termini di agevolazione per l’impresa. I principali vantaggi sono consistiti nella riduzione delle tempistiche o dei costi di istruttoria e nell’applicazione di migliori condizioni economiche in fase di accesso o di rinegoziazione del finanziamento.
In altri termini Bankitalia vi sta dicendo: dotatevi di un rating di legalità perché le banche vedono di buon occhio questo merito – e magari possono anche chiudere l’altro occhio se il bilancio non è proprio un diamantino.
La quasi totalità di soggetti richiedenti (circa il 98%) ha, infatti, ottenuto l’erogazione del credito.
Solo 229 imprese titolari di rating di legalità non sono state finanziate e nella maggioranza dei casi per l’insufficiente merito creditizio dell’impresa. Si tratta di imprese il cui bilancio presentava pessimi indici di redditività o di liquidità oppure aziende con un storia bancaria ricca di insolvenze e morosità. Ma in queste condizioni nessuna azienda, anche con ipotetiche 10 stellette, avrebbe ricevuto un euro.
Nonostante ciò, si tratta però di un fenomeno che, seppur si stia sviluppando in maniera esponenziale nella cultura delle imprese di qualsiasi dimensione, riguarda ancora una percentuale molto irrisoria delle Pmi del nostro paese, visto che le uniche limitazioni per effettuare una richiesta riguardano il fatturato (minimo 2 milioni di euro) e l’anzianità operativa (iscritta nel registro delle imprese da almeno due anni).
Dal 2017 al 2019 le imprese titolari di un rating di legalità sono passate da 4.525 a 9.328. Più del doppio, certo, ma ancora troppo poco rispetto ai potenziali 5 milioni di partite Iva!
Le imprese che, per rispondere alle sfide di un mondo totalmente diverso, ancora dipendono dal “metodo del naso”, il famoso e ormai logoro “fiuto” dell’italico imprenditore, e da una consulenza standardizzata su processi di analisi obsoleti, sono corresponsabili dei loro fallimenti.