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Lehman Brothers, 10 anni fa il fallimento.
Tutte le menzogne che i nostri manager ci costrinsero a dire
Articolo a cura di Vincenzo Imperatore
I momenti importanti della nostra vita rimangono impressi nella memoria come foto incollate su un album. E il 15 settembre del 2008, giorno della dichiarazione del fallimento di Lehman Brothers, lo ricordo perfettamente. Non solo perché all’epoca lavoravo in una grande banca italiana e quindi il vissuto era più coinvolgente. Ma soprattutto perché tutto ciò che è accaduto dopo si è manifestato “grazie” al crac Lehman. Inganni, truffe, raggiri, reati, irregolarità, dissesti, suicidi, collusioni, connivenze, arresti, condanne, tutto il marcio emerso nel sistema bancario italiano (e non solo) in questi 10 anni non sarebbe mai affiorato se non ci fosse stato il 15 settembre 2008.
Per la verità dopo quella data un po’ (ma giusto un po’) di moralizzazione all’interno del mondo della finanza c’è stata ma il risultato più evidente, lo switching epocale, è stata la derattizzazione del sistema. Era polvere buttata sotto al tappeto per non farla vedere alla suocera. Perché, in quel sistema, quasi tutti eravamo consapevoli che il fallimento della Lehman Brothers avrebbe danneggiato migliaia di correntisti, sebbene, già dal giorno successivo al crac della banca d’affari americana, le direzioni generali degli istituti di credito italiani sostenessero il contrario.
Il fine settimana lo avevamo trascorso attaccati al nostro Blackberry facendo scommesse via sms e email. La domanda era sempre la stessa: “Fallisce?”. La maggior parte di noi rispondeva ostinatamente di “No”. Tutti pensavamo – forse anche per scongiurare l’ipotesi che un giorno potesse capitare anche a noi – che la Federal Reserve sarebbe intervenuta. Invece, quando alle 8 di lunedì 15 settembre 2008, appena arrivati in ufficio, accendemmo i nostri computer le agenzie di stampa battevano la notizia: Lehman Brothers, la terza banca per dimensioni negli Stati Uniti, aveva portato i libri in tribunale ed entrava ufficialmente sotto tutela fallimentare (il Chapter 11 della legislazione statunitense). La scommessa era stata persa. In tutti sensi.
Gli indici di Borsa iniziarono a collassare. Il Dow Jones quella giornata perse 504 punti, il crollo più significativo dopo quello del 17 settembre 2001: il primo giorno di apertura dei mercati dopo l’attentato alle Torri gemelle. Nei nostri uffici i telefoni squillavano all’impazzata, i clienti, già scottati da ciò che era avvenuto proprio all’indomani dell’inferno di Ground zero, volevano spiegazioni, erano preoccupati, ansiosi, impauriti di perdere i propri risparmi. In quello stato di agitazione generale, chiedemmo subito aiuto al top management per avere delle direttive da seguire con i risparmiatori. Il tenore delle prime mail che ci arrivarono dall’alto suonava più o meno così: “Tranquilli, state sereni. La vicenda Lehman Brothers è un fatto esclusivamente americano”.
Secondo i “capi supremi”, quello dei mutui subprime – concessi a chi non aveva neppure un dollaro ma aveva il diritto di comprare una casa – era un fenomeno che riguardava solo gli americani, che si erano lanciati nel business della “finanza creativa” costruendo migliaia di contratti derivati sul pacchetto, appunto, dei mutui subprime. In sostanza, dovevamo rassicurare i clienti come se il fatto non ci riguardasse. Ma non era così.
Lo sapevamo tutti che le banche nostrane, esattamente tra il 2003 e il 2004, avevano acquistato contratti derivati e obbligazioni della Lehman Brothers (oggi privi di valore) e, soprattutto, si erano buttate a capofitto nell’affare (assai remunerativo) delle “polizze assicurative a capitale garantito“. Una bufala, naturalmente. Perché la “garanzia” era costituita da obbligazioni bancarie e non dalla compagnia assicurativa. Cioè, il “sottostante”, come viene definito nel gergo bancario, era rappresentato dalle obbligazioni Lehman; pertanto una volta saltata la stessa, il cliente rimaneva con il cerino in mano.
Le rassicurazioni che piovevano dall’alto poggiavano anche sulla teoria del “fallimento inatteso”, classico atteggiamento del management bancario che di fronte alle proprie responsabilità sa rispondere solo in un modo: la colpa va sempre ricercata altrove. E in questo caso doveva ricadere tutta sulle agenzie di rating. Ai clienti dovevamo far passare questo concetto. Altra bufala, altra menzogna. Perché se è vero che Lehman Brothers aveva un ratingelevato fino al giorno prima del crac, è altrettanto vero che da mesi era nell’occhio del ciclone.
E se è vero che le sue obbligazioni erano presenti nella sezione delle “obbligazioni a basso rischio e rendimento” dell’accordo interbancario PattiChiari, è altrettanto vero che, ai sensi del regolamento, quelle stesse obbligazioni non dovevano più essere collocate in quella sezione mentre lo sono state fino al giorno del fallimento. Assurdo ma è così. Con il 15 settembre 2008 è iniziato però il processo di ridimensionamento dei “deliri di onnipotenza” dei manager bancari. Ma la maggior parte dei raccomandati e degli inefficienti sta ancora là.
Con il 15 settembre 2008 siamo entrati nell’era della consapevolezza della inefficienza di una classe dirigente che ha distrutto i risparmi di milioni di cittadini. Ma altre migliaia potrebbero ritrovarsi senza un quattrino a breve (Carige) Con il 15 settembre 2008 è stato sdoganato un silenzio fin troppo connivente della maggior parte della nostra editoria. Ma ancora, tranne casi eccezionali, se ne parla solo quando scorre il sangue, quando è tardi. Con il 15 settembre 2008 abbiamo assunto consapevolezza che contro le banche non basta indignarsi: serve il coraggio della denuncia. Ma la tutela dei whistleblower è ancora di fatto inesistente. Festeggiamo ogni anno il 15 settembre. Solo così possiamo scongiurare un Lehman Brothers bis nel nostro Paese.