By: gestione
Quelle banche disumane con le risorse umane
Tratto da Lettera 43
«Per cambiare un’organizzazione aziendale è necessario che un manipolo di cambiatori distrugga fisicamente i gangli che si oppongono al cambiamento. A tal fine bisogna creare malessere e poi colpire le persone che si oppongono al cambiamento in modo da suscitare paura nell’intera organizzazione. Così in pochi mesi l’organizzazione capirà, perché alla gente non piace soffrire».
Sono le parole ormai famose di Francesco Starace, amministratore delegato di Enel, pronunciate a fine maggio 2016 durante l’incontro con gli studenti della Luiss Guido Carli di Roma di fronte alla domanda: «Come si cambia un’organizzazione?». Certo, la frase fa molto pensare e ha indignato l’opinione pubblica.
Ma non scandalizziamoci più di tanto.
BANCHE, ESEMPIO NEGATIVO. Starace ha solo palesato quello che succede in tante aziende, o almeno in quelle orientate esclusivamente al risultato. E quando si tratta di record negativi il primato non poteva non appartenere alle banche.
È prassi diffusa nelle banche (ma non solo) adottare tecniche di terrorismo con i dipendenti.
Per quanto brutto possa essere ammettere tale verità se ne deve comunque prendere coscienza.
C’è chi nasce per controllare e chi per essere controllato a quanto pare.
E questa dinamica se mal gestita produce danni irreparabili, ben superiori a quelli derivanti dalle sofferenze sui crediti.
Ma qui il problema è di duplice natura. Innanzitutto sussiste un problema di immagine che coinvolge anche i manager che adottano invece tecniche di gestione delle risorse umane orientate alla motivazione e all’etica.
IL CLIMA DISTESO INSOSPETTISCE. La visione comune infatti del manager è quella che lo vuole spietato, autoritario, cinico e determinato al fine di raggiungere i suoi obiettivi.
E per fare questo non guarda in faccia a nessuno.
Non sto dicendo che non sia anche così: se quanto è opinione diffusa, molto probabilmente è alimentata da dati oggettivi.
Ma ciò che mi preme sottolineare in questo caso è che spesso per un manager ‘presentarsi’ in questo modo (anche se di fatto si comporta in maniera etica) fa status.
E sapete perché? Perché il manager accettato da tutti i suoi collaboratori con i quali ha instaurato un clima di totale fiducia ‘insospettisce’ il responsabile delle risorse umane e tutto il suo staff.
Il cambiamento di cultura deve avvenire proprio nei manager della funzione ‘gestione risorse umane’, legati ancora a modelli di comportamento obsoleti.
BALUARDO CONTRO IL CAMBIAMENTO. Sempre orientati al sospetto, carichi di ‘retropensieri’, abituati solo al colloquio di reprimenda e poco inclini all’elogio, i manager del settore Risorse umane nel nostro Paese rappresentano ancora l’ultimo avamposto dei resistenti al cambiamento perché, sempre memori del loro potere consolidato nei decenni scorsi, non vogliono convincersi che la gestione del collaboratore è invece di pertinenza del capo diretto con cui vive quotidianamente.
Paradosso: la soddisfazione dei sottoposti preoccupa le risorse umane
Ho personalmente vissuto un caso del genere nel corso della mia carriera di manager: nonostante una indagine di People satisfaction (verifica del soddisfazione della gente che lavora con te attraverso un questionario anonimo) mi facesse risultare fortemente benvoluto dai miei collaboratori, l’allora capo del personale piuttosto che complimentarsi mi convocò perché ‘preoccupato’ dai risultati troppo positivi.
IL TERRORE CREA DANNI. Ma l’aspetto più drammatico riguarda invece il danno che crea il clima di terrore.
Secondo recenti studi in tema di psicologia del lavoro, esposti nell’incontro organizzato dall’ordine degli Psicologi del lavoro a Cagliari nel 2015, ridurre lo stress dei dipendenti permette non solo la maggiore comprensione dei piani aziendali con la conseguente condivisione, ma anche maggiore produttività oltre che (se vogliamo dirla tutta) l’adempimento agli obblighi legali.
Esistono infatti nel nostro ordinamento due norme, l’articolo 28 del decreto legislativo n. 81 del 2008 e la Circolare del Ministero del Lavoro n. 23692 del 2010, che obbligano il datore di lavoro a misurare il livello di stress tra i dipendenti e prendere opportuni provvedimenti per eliminarlo. Un obbligo, questo, sanzionato anche penalmente.
PROFITTI SÌ, MA COME? Alcune domande sorgono spontanee: terrorizzare i dipendenti non aumenta forse lo stress sul luogo di lavoro?
La legge che valenza ha quando in discussione ci sono gli alti profitti di grandi aziende?
Nei miei 25 anni di esperienza ho visto che al top management non interessava il ‘come’ arrivavi al risultato, ma solo il raggiungimento dell’obiettivo.
Profitti veloci, risultati sperati e tanto malessere erano il risultato. Ma ai “grandi capi” quanto interessa l’ambiente lavorativo dei propri dipendenti?
SPIATI PURE DALLA TECNOLOGIA. Purtroppo anche la tecnologia va nella stessa direzione; una direzione che si arricchisce ogni giorno di scorciatoie a danno di chi rimane sempre più indietro.
Parlo delle novità tecnologiche, delle nuove App che permettono di controllare in qualsiasi momento la posizione esatta dei propri dipendenti con una chiara violazione della privacy.
Ma di violazione purtroppo non si può propriamente parlare. I dipendenti infatti firmano sempre un’informativa, soprattutto quando viene loro dato in dotazione il telefonino aziendale, tablet, computer, in cui autorizzano l’accesso e il trattamento dei dati personali senza meglio specificarne i limiti.
VIA LIBERA DAL LEGISLATORE. Però tale prassi di controllo che non rispetta la privacy e le identità delle persone, se prima era gestita in maniera subdola e silenziosa, ora ha ricevuto il suo endorsement dal legislatore grazie alla nuova disciplina in tema di controlli a distanza dei dipendenti, prevista dalla riforma del mercato del lavoro e che riscrive quanto previsto dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori.
Quest’ultima non prevede la necessità di un previo accordo con le rappresentanze sindacali per l’utilizzo dei dati in questione, obbligo che rimane invece in vigore nel caso di utilizzo di dati provenienti da apparecchi audiovisivi.
Per molte applicazioni di controllo basta il Gps
Occorre anche dire che un’apparente forma di tutela si legge nell’informativa che illustra lo schema del decreto legislativo del Jobs act.
È stabilito infatti che i dati a disposizione del datore di lavoro devono essere «utilizzati a ogni fine connesso al rapporto di lavoro, purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e l’effettuazione dei controlli, sempre, comunque, nel rispetto del codice privacy».
Il fatto che il datore di lavoro non possa per legge utilizzare le informazioni per fini diversi dal mero rapporto di lavoro non vuol dire che esso non ne sia in possesso. Questo basta, per poter parlare di “tutele apparenti”.
Siamo, infatti, comunque di fronte a un controllo attivo 24h senza sapere né perché né quando né come.
QUALE STATO PSICOLOGICO? A voi le conclusioni sullo stato psicologico di chi sa che potrebbe essere controllato in qualsiasi momento dal proprio datore di lavoro.
Molte di queste App disponibili sul mercato non necessitano che il controllato abbia la stessa applicazione sul proprio telefonino, basta semplicemente il Gps che qualsiasi apparecchio installa tra le impostazioni base.
Questo permette di accedere alla posizione senza che non ci sia nessuna accettazione preventiva di entrare nel nuovo mondo virtuale fatto di controllanti e controllati in cui vigono le “leggi del potere” di cui i legislatori sono chiari a tutti ma non se ne conoscono i limiti.
INVITI A NON METTERE LIKE. Non mi scandalizzo quindi quando ex colleghi mi riferiscono che sono stati ‘invitati’ a non mettere ‘like’ sui miei articoli o sui post inseriti sui social
Non mi scandalizzo se i miei amici-ex colleghi, impauriti e stressati, devono venirmi a trovare allo studio in maniera ‘carbonara’ e con il cellulare spento perché può essere identificata la loro posizione.
Non mi scandalizzo se quegli stessi amici-ex colleghi devono utilizzare un telefono (e una scheda Sim) diverso da quello aziendale perché certi di essere intercettati.
Non mi scandalizzo se qualche banca costringe alle dimissioni un dipendente perché crede che possa essere stato la ‘fonte’ delle prove per il mio secondo libro.
DEMOTIVAZIONE E INEFFICIENZA. Non mi scandalizzerò neppure quando quelle stesse aziende (banche) dichiareranno il loro default perché conseguenza inevitabile anche della ‘loro’ politica di gestione delle risorse umane.
Mi scandalizzerò invece solo quando finalmente saranno rimossi quei manager che hanno creato tanta demotivazione e tanta inefficienza. Perché sarà troppo tardi.