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Quei dirigenti strapagati anche se senza curriculum
In Italia la preparazione non paga. Il 33% dei top manager non ha nemmeno la laurea. Il nostro sofferente sistema bancario dovrebbe riflettere anche su questo. Una delle cause della crisi che lo ha colpito.
Articolo di Vincenzo Imperatore su Lettera43
Nella immaginifica “smorfia delle banche” esiste un solo numero che codifica un momento atteso e rituale che fa sempre vincere il popolo dei bancari: il 27! Il 27 è il giorno del mese in cui, da oltre 150 anni, si pagano gli stipendi ai bancari. Un retaggio del passato, legato al fatto che la maggior parte delle banche erano praticamente pubbliche e quindi i bancari equiparati agli statali. Era il 23 aprile 1864, infatti, quando Marco Minghetti, quinto presidente del Consiglio dopo l’unificazione del Regno d’Italia, regnante Vittorio Emanuele II, firmò la circolare che ancora oggi consente ai dipendenti pubblici di riscuotere lo stipendio il 27 di ogni mese.
IL 27? FA VINCERE MA MENO DEL PASSATO. Abbiamo già affrontato, su queste colonne, il tema analizzandolo dal punto di vista del middle management e del popolo degli impiegati bancari. In sintesi il bancario, pur appartenendo a una categoria di lavoratori con uno stipendio ancora superiore alla media di tutti i settori di attività produttive, ha subito negli ultimi anni una drastica riduzione del proprio reddito complessivo. Il 27 fa ancora vincere bene e con certezza ma meno degli anni passati. Si parla invece abbastanza poco dei grandi compensi e degli sprechi dei top manager. L’etica degli stipendi dei massimi dirigenti diventa argomento attuale e rilevante (per i media) solo quando torna alla ribalta delle cronache il default di qualche banca. Solo in questi drammatici momenti ci si scandalizza di fronte alla sproporzione tra gli emolumenti (stipendi, benefit, liquidazioni) dei mega-dirigenti e i pessimi risultati raggiunti. E quindi subito in “prima pagina” classifiche e tabelle con i compensi di amministratori delegati, presidenti e direttori generali.
FALLITI PERCHÉ IMPREPARATI. Vi risparmio quindi questa tortura (che tra l’altro potete trovare facilmente sul web). In questa sede ho deciso invece di affrontare il tema da altri due punti di vista. Il primo riguarda lo squilibrio esistente tra i redditi dei top manager e i loro profili professionali. È fin troppo chiaro che il fallimento gestionale del sistema bancario non è stato solo una conseguenza “etica” legata ai disvalori di chi ha governato (e governa) le istituzioni finanziarie ma è strettamente correlato anche alle incapacità e alla impreparazione dei top manager. In tal caso credo che non si debba far fatica a mettere in dubbio le attitudini o i meriti delle persone sopra citate. Lo stipendio di un qualsiasi individuo, oltre che eticamente compatibile, dovrebbe essere sicuramente proporzionale alle responsabilità e agli obiettivi cui è chiamato ad assolvere ma anche alle skill e alle competenze oggettive (titoli di studio).
L’appiattimento delle competenze verso il basso e il blocco dell’ascensore professionale nel nostro Paese è un dato di fatto. Nei miei 22 anni di vita all’interno di quel sistema ho visto direttori generali non saper spiaccicare una parola in inglese (in una banca che aveva adottato la lingua inglese come lingua ufficiale), amministratori delegati senza una laurea, il capo della sicurezza (colui che dovrebbe prevenire in maniera efficace gli eventi criminosi) di un grande gruppo bancario, noto solo per le sue capacità terroristiche, che sui social network si vantava di non essere laureato.
MASTER PER SOLO IL 14% DEI MANAGER. Il primo elemento che dovrebbe influenzare la remunerazione dei componenti dei cda e delle direzioni generali sono le competenze professionali detenute per il governo dell’impresa. E il primo pilastro su cui si costruiscono le competenze (capacità tecniche e personali) è rappresentato sicuramente dal curriculum scolastico e dal titolo di studio. Secondo quanto rilevato da ManagerItalia, l’associazione professionale dei manager e delle alte professionalità del terziario, solo due dirigenti su tre (il 65% per l’esattezza) tra quelli che operano in Italia sono in possesso del titolo di laurea e solo il 14% anche di un master, mentre la restante parte si è fermata alla scuola superiore (il 33%), con una quota marginale che non è andata al di là della scuola dell’obbligo. Non solo: secondo quanto riportato dal Sole 24Ore, uno studio condotto da AlmaLaurea rileva che a 10 anni dal conseguimento della laurea i dipendenti di banca guadagnano mediamente 1.792 euro mensili netti, un valore sicuramente superiore alla media nazionale (1.620 euro) ma che conferma indirettamente però che i “grandi stipendi” sono appannaggio quindi dei “non laureati”.
ASSIMETRIA TRA I PRIMI E GLI ULTIMI. L’altro aspetto che occorre far notare è l’asimmetria reddituale in banca tra i “primi” e gli “ultimi”. In Italia un dipendente di inquadramento medio di una grande società dovrebbe lavorare 36 anni per guadagnare quanto il top management della società stessa percepisce in un solo anno. È quanto emerge dalla ricerca che annualmente viene pubblicata tramite l’Annuario R&S di Mediobanca, relativamente agli andamenti economici dei 50 maggiori gruppi industriali e finanziari italiani. I dati dimostrano che un dipendente avrebbe dovuto iniziare a lavorare nel 1978 per poter guadagnare quanto il proprio presidente o amministratore delegato ha percepito nel 2014.
SERVE UNA POLICY DEI COMPENSI TRASPARENTE. Il sistema bancario, invece di scrivere inutili e teoriche mission, dovrebbe sicuramente dotarsi di una policy dei compensi trasparente ed equa, nella quale fissare un limite alle remunerazioni e stabilire che il compenso del direttore generale non può essere superiore a sei volte a quello del collaboratore con il livello di inquadramento più basso. Secondo una ricerca della Fisac-Cgil, nel 2012 il rapporto fra la retribuzione media del personale dipendente e lo stipendio degli amministratori delle 10 principali società italiane era 1 a 163, mentre nel settore bancario era di 1 a 64 (oggi sceso a circa 50). Questi dati pongono un problema di equità e distribuzione del valore economico creato dalle banche. È una questione di responsabilità sociale, ma nei formali bilanci di sostenibilità degli istituti di credito si trovano solo alcune modalità di determinazione dei compensi agli amministratori e poca trasparenza sulle cifre. Il sistema bancario non si è impegnato in questi ultimi a mettere a punto percorsi di rendicontazione sociale e ambientale e molto lavoro rimane da fare su questo fronte.