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L’azienda passata ai figli uccide più delle banche
Cedere la gestione ai parenti può rovinare. Serve un programma di coaching e tutoring.
Articolo a firma di Vincenzo Imperatore tratto da “Lettera43”
Uno studio di Confindustria ha riportato che su 80 mila imprenditori che ogni anno in Italia affrontano la successione generazionale «appena un quarto supera il primo passaggio, il 14% non supera il secondo mentre al terzo rimane in piedi solo il 5% delle imprese».
E il 63% delle aziende che sopravvivono al passaggio generazionale «non va oltre il quinto anno di vita».
In sostanza circa 30 mila aziende lasciano il mercato per motivi che «non sono legati alla crisi o alle contingenze, ma a due pilastri della parte umana del capitalismo. La capacità intrinseca di fare business e di governare l’azienda».
Insomma, non è sempre detto che l’azienda di famiglia, soprattutto se piccola, sia in grado di creare valore.
SCARSA REGOLAMENTAZIONE. La maggior parte di quelle 30 mila inserite nello studio di Confindustria «cessano l’attività per cause non legate a ragioni legali e neanche fiscali, ma per cattiva gestione delle informazioni e delle comunicazioni all’interno del nucleo, per il mancato rispetto dei ruoli di amministratore, azionista e manager, per una scarsa regolamentazione dell’ingresso e del trattamento dei famigliari in azienda».
Senza contare che il 68% degli imprenditori manifesta l’intenzione di affidare in blocco l’azienda a un parente. In genere stretto. Indipendentemente dalle capacità.
Il tema del passaggio generazionale è molto sentito nel nostro Paese, però viene affrontato come quelle malattie tanto temute che per fasulla scaramanzia non si vogliono curare.
EQUILIBRIO COMPLESSO. Il rapporto nucleo famigliare-impresa-management è un equilibrio complesso tra business e sentimento che il piccolo imprenditore capo famiglia preferisce emotivamente non affrontare.
L’unico rimedio si chiama prevenzione: capacità di preparare, anche attraverso un programma di coaching e tutoring, l’avvicendamento nella gestione.
Inoltre, questo tipo di impresa dovrebbe passare il più possibile da una condizione di gestione da ”padre-padrone”, autonoma e poco incline al confronto, a una situazione dove sia presente un team di governance.
Bisogna iniziare a separare i ruoli di azionista (o comunque di chi ci mette il capitale) da quelli di consigliere e di manager.
Un consigliere indipendente può valutare meglio il management
Spesso, nei casi di piccole società più evolute, la questione si risolve solo ‘formalmente’ includendo nei consigli di amministrazione amici di famiglia, il che genera un fenomeno di complacency, ossia di conferma dei giudizi e spesso dei pregiudizi.
L’esatto opposto di quanto riesce ad apportare un consigliere indipendente che ha meno vincoli per valutare un nuovo management, le dinamiche relazionali tra tutti gli attori in campo, analizzare i flussi di informazioni e creare un sistema di controllo in grado di resistere ai cambi generazionali.
SERVE CONSULENZA. Ovviamente situazioni così delicate come la cessione di un’azienda da un padre ai figli non sono una passeggiata e non hanno mai un esito certo perché a fare la differenza è sempre la qualità umana dei proprietari come dei manager.
Occorre però, ripetiamo, affidarsi a studi di consulenza specializzati con largo anticipo rispetto alle scadenze naturali, di per sé imprevedibili.
Quasi sempre, di punto in bianco, non è in gioco solo la continuità dell’azienda, ma contemporaneamente anche la convivenza familiare, il rapporto di fiducia instaurato con i manager-parenti, il giudizio sulla ‘nuova generazione’ e, soprattutto, le responsabilità future della proprietà.
FATALE SOTTOVALUTAZIONE. Pertanto per chi non ha saputo o voluto anticipare il problema – relegandolo invece tra le cose che sono destinate ad avvenire ‘naturale ente’ e che non necessitano particolare attenzione o, peggio ancora, nell’area dei fatti che producono sensazioni sgradevoli e che è meglio dimenticare in fretta per concentrarsi su cose più piacevoli – il risveglio sarà dei più amari.
Il «patto legale della famiglia» aiuta la transizione
A monte si possono anche impostare strumenti di vincolo e di ottimizzazione.
Per esempio, un «patto legale della famiglia» che garantisca il ricambio generazionale e la continuità d’impresa.
La finalità è quella di assicurare, fissando regole precise, continuità nella gestione delle imprese, attraverso: l’individuazione di uno o più discendenti – figli, nipoti – dell’imprenditore ritenuti idonei alla gestione; il trasferimento a esso dell’azienda o delle partecipazioni (quando l’impresa è svolta attraverso una struttura societaria); la liquidazione dei diritti economici dei legittimari ai quali non viene assegnata l’azienda o non vengono date le partecipazioni.
ACCORDO CON GLI EREDI. In altri termini, un accordo tra l’imprenditore e gli eredi legittimi che stabilisca le regole future, dalla gestione di potenziali conflitti alle retribuzioni dei membri di famiglia impegnati nell’impresa.
E pure le regole fiscali: dall’erogazione dei dividendi all’eventuale istituzione di trust o fondazioni.
Senza dimenticare l’ipotesi di prendere in considerazione l’apertura del capitale a fondi e realtà estranee all’entourage.
In Italia fare entrare capitali freschi nell’azienda di famiglia era visto fino a qualche tempo fa come una diminutio sociale.
BISOGNA DISTACCARSI. Oggi per fortuna qualcosa sta cambiando. A differenza del mondo anglosassone, l’imprenditore italiano medio ritiene un valore aggiunto trascorrere il maggior numero possibile di ore al giorno in azienda per identificarsi con essa.
Osservare le mosse del capitale anche da fuori aiuta invece a creare quel giusto distacco che rende la governance più efficace e il terreno della successione generazionale più fertile.
Ma qui ci scontriamo con la logica professionale del commercialista tuttologo che sulla scena occupa la casella del suggeritore e che, pur fiutando aria di default, non entra direttamente sul tema, ma allestisce e vende servizi-tampone o progetti-ponte.