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La normativa Bankitalia e un harakiri che ha del misterioso
Dal primo gennaio è entrata in vigore una direttiva le cui disposizioni graveranno pesantemente sui bilanci delle banche del 2018. Ecco cosa non torna.
Articolo a cura di Vincenzo Imperatore su Lettera 43
Nessuno ne parla, anche perché pochi ci capiscono, ma un altro spettro si aggira per il nostro sistema bancario. Dal primo gennaio è entrata in vigore una normativa le cui disposizioni graveranno pesantemente sui bilanci delle banche del 2018. Una direttiva diramata da Bankitalia che dovrebbe essere trattata nell’ambito di una tematica che investe l’economia reale e che trascende l’aspetto puramente finanziario. Un provvedimento che meriterebbe più attenzione e che andrebbe giudicato con maggiore severità perché determina lo spostamento di ricchezza reale dalle banche, già di per sé gravate da tanti problemi, e dal loro azionariato diffuso (i risparmiatori) a un sistema controllato sostanzialmente da sei grandi gruppi, multinazionali (la più grande in Italia è Jupiter Finance del gruppo De Benedetti) che acquistano i crediti marci del sistema bancario europeo. Un processo di redistribuzione di ricchezza di cui le banche, cosi come già visto la settimana scorsa, sono assolute protagoniste. Il primo aspetto che fa riflettere riguarda la prescrittività delle indicazioni.
UN SISTEMA OSCURO. Le regolamentazioni degli organi di controllo, in particolare quelle di Bankitalia, di solito sono piuttosto vaghe, stabiliscono principi e orientamenti, introducono delle “linee guida” ma raramente sono prescrittive. In questo caso invece ci sono delle indicazioni chiarissime che le banche less significant devono seguire. Infatti, nel documento “Linee Guida per le banche Less Significant italiane in materia di gestione di crediti deteriorati”, Bankitalia più volte fa riferimento all’opportunità per le banche di cedere i crediti marci a prezzi di realizzo. Un sistema oscuro, molto poco trasparente dove ci sono società che comprano i crediti deteriorati all’11-12% e poi propongono ai debitori una transazione a “saldo e stralcio” tra il 25% e il 40% della debitoria. In altri termini, molto semplificati, possiamo dire che, a fronte di un debito di 100 mila euro, la società di recupero si accontenta anche di 30 mila euro (ipotesi di saldo e stralcio al 30%) per chiudere tutta la faccenda. In tal modo fa risparmiare circa 70 mila euro al debitore e ci guadagna circa 20 mila euro avendo acquistato il credito dalla banca a 11-12 mila euro.
E chi ci perde in tutto questo? Le banche. Lo so, in questo momento state sorridendo non credendo assolutamente all’idea che le banche si facciano convincere dall’Organo di Controllo a cedere un credito per far guadagnare un terzo (la società di recupero). Anche perché ci si può logicamente chiedere: se proprio non ci sono ulteriori margini di trattativa nella transazione con il debitore (nel caso abbia solo quei 30 mila euro), perché la banca non se li incassa direttamente e riduce le perdite di 20 mila euro circa eliminando l’intermediazione (e il guadagno) della società di recupero? Perché la banca non ha riflettuto sul fatto che quelle ulteriori perdite riducono il valore del capitale in mano ai singoli soci, spesso piccoli azionisti “forzati” ad acquistare le quote o le azioni (soprattutto in occasione degli aumenti di capitale )? Non solo, ma hanno pensato che, riducendo il valore del capitale in mano al socio, fregano se stesse e il sistema bancario nel suo insieme? Il secondo punto di riflessione riguarda i tempi stringenti in cui vanno svalutati totalmente i crediti in sofferenza: sette anni per quelli garantiti da ipoteca e addirittura due per tutti gli altri. Una istruzione precisa che invoglia sempre più le banche a cedere i crediti marci e le induce a produrre, masochisticamente, perdite.
UN BAGNO DI SANGUE. In altri termini se la banca al 31 dicembre 2017 ha in bilancio un credito deteriorato (non garantito da ipoteca) da recuperare di 100 euro, deve ammortizzare il rischio in due anni, iscrivendo un accantonamento (un costo figurativo iscritto in bilancio per far fronte a spese/perdite incerte) di 50 euro nel 2018 e di altre 50 euro nel 2019. Un bagno di sangue che diventa una tragedia se prendiamo in considerazione una ulteriore delibera di Bankitalia (su direttiva della Bce) con cui si richiede alle banche una copertura media annua sulle sofferenze pari al 70%. In altri termini se Bankitalia dice che mediamente una banca deve attestarsi sul 70% per avere una copertura buona sulla sofferenza, allora succede che se la banca divide quella cifra (100 euro) in 50 il primo anno e 50 il secondo anno, l’accantonamento medio potrebbe scendere dal 70% al 50% con conseguente contestazione alla banca di una scarsa copertura delle sofferenze. E quindi? Quindi alle banche, nel dubbio, non resta altro che accantonare 70 euro nel 2018 e 30 euro nel 2019.
DUE ALTERNATIVE PER LE BANCHE. L’induzione alla cessione dei crediti è infine ulteriormente sollecitato anche dalla disciplina fiscale che costringe le banche a pagare le tasse due volte sullo stesso credito deteriorato: la prima (0,6% del portafoglio crediti totale) ante svalutazione e la seconda sulla eventuale plusvalenza nel caso, molto probabile visto una supersvalutazione del 70% nel primo anno, in cui la banca recupera più di quanto accantonato. Le cessioni dei crediti deteriorati, dietro il “misterioso” harakiri, hanno il formale obiettivo di far apparire il sistema bancario più sano presentandolo con una percentuale di “sofferenze” più bassa e contenuta ma nello stesso tempo possono portare sostanzialmente il sistema al default. Rimangono solo due alternative per le banche: convincere o costringere (dipende dalla composizione della maggioranza) il nuovo governo ad intervenire per rivedere la disciplina prima che sia troppo tardi (ricordate il bail in?) o continuare con il falso in bilancio cercando di tirare la corda il più possibile mantenendo “in bonis” quei crediti che bonis non sono. A meno che dietro quelle società di recupero crediti…