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I Confidi falliscono: colpa delle banche?
Articolo a firma di Vincenzo Imperatore. Tratto da “MoneyFarm”
I Confidi e la storia di un fallimento annunciato.
Nel silenzio generale (di media, istituzioni, banche, Bankitalia) è fallito Eurofidi, il più grande Consorzio Fidi del nostro Paese (terzo in Europa).
Ma come è potuto accadere che la società che forniva garanzia a oltre 50 mila piccole e medie imprese abbia chiuso con un debito di 100 milioni di euro senza un minimo di reazione da parte degli attori di questa ennesima farsa che si sta recitando sul palcoscenico della finanza italiana?
Facciamo il punto.
I Confidi (acronimo di Consorzio di garanzia collettiva dei fidi) sono disciplinati dalla legge e garantiscono normalmente il 50% del finanziamento concesso da una banca, che si accolla il rischio solo per la parte restante.
Nascono come espressione delle associazioni di categoria di industriali, commercianti e artigiani e si basano su principi di mutualità e solidarietà.
Fino al 2008, con l’avallo e la consapevole complicità degli istituti, hanno dato un notevole contributo allo sviluppo del credito nei confronti delle piccole imprese che non avevano i requisiti per poter accedere ai finanziamenti bancari.
I Confidi, infatti, garantiscono i prestiti erogati tramite i fondi consortili (alimentati sia da risorse pubbliche sia dai contributi degli imprenditori associati) disposti presso banche convenzionate.
Dal 1994 al 2008, cioè negli anni precedenti alla crisi, essi rappresentavano un grande business per gli istituti, che vedevano incrementare i livelli di raccolta del denaro proprio per effetto del deposito dei fondi. Nel 2007 i Confidi nel nostro Paese erano circa 700 (contro i 20 della Germania e i tre della Francia), avevano intermediato finanziamenti garantiti per circa 50 miliardi di euro e davano lavoro a oltre 10 mila persone. Tutti noi manager bancari sapevamo che i Confidi avevano (e hanno) un portafoglio di clienti – e quindi di garanzie – composto da soggetti deboli, di piccole dimensioni, maggiormente esposti a crisi finanziarie come quella che poi è esplosa. Ne eravamo coscienti ma «business is business». Se veniva un imprenditore a chiedere un finanziamento eravamo i primi a fargli capire che era preferibile rivolgersi a un Confidi che poi avrebbe canalizzato l’operazione presso di noi.
Al cliente non veniva detto però che l’iscrizione a un consorzio costava complessivamente (tra le varie commissioni e contributi) circa il 10% dell’importo richiesto, di cui una parte veniva ‘retrocessa’ all’istituto.
Il Confidi, a sua volta, ricambiava la cortesia della segnalazione «convincendo» il correntista a comprare, per esempio, una polizza assicurativa, e il cerchio si chiudeva. Poi la favola si è interrotta. Da circa otto anni, contemporaneamente alla recessione economica, i consorzi stanno subendo danni ingenti a causa della loro stessa unica missione: garantire le imprese più deboli e di conseguenza «costringere» le banche, secondo i criteri di Basilea, a fare, nonostante la garanzia, più accantonamenti.
Sul primo punto (garantire le imprese più deboli) i risultati sono evidenti anche perché l’operatività dell’ultimo triennio si è spostata sul supporto di fidi prorogati o rifinanziati: per i Confidi la crescita delle sofferenze – e quindi del volume di garanzie escusse dalle banche – negli ultimi tre anni è quasi il doppio di quella delle banche. E queste perdite riducono sensibilmente il patrimonio dei consorzi, molti dei quali hanno dovuto addirittura chiudere per mancanza di capitale sociale. Una situazione degenerata anche perché praticamente, negli ultimi tre anni, i Confidi sono stati uno dei bracci operativi più importanti dei due strumenti messi in campo contro il credit crunch: il Fondo Pmi (o Fondo centrale di garanzia) e l’Avviso comune Abi-imprese (moratoria).
Ma è il secondo aspetto (la garanzia dei Confidi costa ancora tanto in termini di accantonamenti) quello più inquietante. Nel momento in cui le banche si sono accorte che l’accesso diretto (senza passare per i Confidi) al Fondo centrale di garanzia consente alle stesse di accantonare meno «patrimonio di vigilanza», non hanno esitato un attimo ad abbandonare la nave dei Confidi ormai alla deriva. Non solo ma, vista la forte pressione della lobby bancaria, è intervenuto persino l’endorsement del ministero dello Sviluppo economico che oggi può fornire agli istituti di credito una garanzia pubblica diretta, anche fino al 90% del finanziamento, tramite il Fondo centrale di garanzia: un sistema che sta esercitando una concorrenza sleale nei confronti dei Confidi mettendo in discussione la loro futura esistenza e i relativi livelli occupazionali. Alle banche conviene, perché avere una garanzia pubblica non comporta accantonamenti. Mero opportunismo ma anche cronico moral hazard: il rischio elevato deve essere scaricato sugli altri, in questo caso lo Stato.
In realtà la convenienza maggiore è proprio per la banca, alla faccia dei cinquant’anni di storia dei Confidi.