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Banche, i piani post-crisi dicono che la svolta è ancora lontana
Le strategie messe in campo raccontano favole, in cui si sublima l’incapacità degli istituti di credito di realizzare gli obiettivi comunicati al mercato. L’ultimo esempio è Carige.
Articolo di Vincenzo Imperatore su Lettera43
Nulla di nuovo e soprattutto pochi media lo rilevano. Leggi e rileggi i piani industriali delle banche sostanzialmente fallite o prossime al default e ti rendi conto che si naviga a vista, o comunque secondo uno schema superato che evidenzia la inadeguatezza del management strategico. Tra l’altro, come già ricordato su queste colonne, si tratta degli stessi manager che sono stati sostituiti nelle loro precedenti esperienze perché reputati inefficienti. Parliamo soprattutto degli ex top manager del gruppo Unicredit e del processo di “unicreditizzazione” delle banche già fallite o vicine al default da cui nasce una perplessità che deriva dalla considerazione di fondo sul ritardo italiano in merito al processo di cambiamento e svecchiamento della classe dirigente, compresa quella bancaria. In altre parole: se i nuovi manager erano stati giudicati anziani e superati (se non inadeguati) dalla loro stessa banca e rimossi dagli incarichi (con la formula dell’invito alle dimissioni), come mai, poi, li si chiama a dirigere istituti sull’orlo del crac o reduci da un fallimento, e che continuano a rivelarsi inefficienti?
SOLO TAGLI E CASH OUT. Questa inefficienza si manifesta in maniera lampante quando ci si appresta a leggere le “favolette” raccontate nei piani strategici e industriali post-crisi delle banche, laddove si sublima l’incapacità degli istituti di credito di realizzare gli obiettivi comunicati al mercato. Non solo, ma risulta altrettanto evidente la limitata vision strategica dei top manager bancari se riscontriamo quali sono le leve su cui intendono lavorare per rimettere in sesto la baracca. Sempre gli stessi: urgente necessità di ricapitalizzazione; cessione degli asset non strategici; drammatica riduzione dei costi operativi (in primis costo del lavoro). Che fantasia! Ultimo esempio della illuminata vision strategica del management bancario nostrano è il piano industriale presentato dall’amministratore delegato di Carige Paolo Fiorentino (ex Unicredit) coadiuvato dal fido direttore finanziario Andrea Soro (ex Unicredit): una bellissima presentazione in PowerPoint da cui non emerge un solo rigo che punti al recupero della redditività tramite i ricavi. Solo taglio dei costi e operazioni di cash out.
UN CAPITALE DI FIDUCIA DILAPIDATO. Fonti molto vicine all’attuale governance della banca fanno intendere che tra le prossime operazioni di ottimizzazione dei costi, non ancora dichiarate, potrebbe esserci anche l’esternalizzazione dei servizi It concessi in outsourcing a Value Transformation Services (V-TServices), la società nata dalla joint venture tra Ubis (UniCredit Business Integrated Solutions), UniCredit e Ibm, che fornisce servizi tecnologici anche ad altre banche (oltre Unicredit). E il “gioco dell’oca” ci riporta alla casella di partenza. Il problema fondamentale del sistema bancario (non solo di Carige) riguarda invece il recupero del capitale di fiducia dei clienti ormai dilapidato. Un problema che non si vuole affrontare. O forse più semplicemente non ci sono le capacità per affrontarlo. Cosa stanno facendo le banche sul piano della Fintech per adeguarsi al nuovo modo di “consumare”? E come pensano di combattere i nuovi competitor che si stanno affacciando sul mercato? Nessuna risposta. Forse è il caso di pensare a uno svecchiamento visto che, secondo una indagine del 2012 solo apparentemente datata (da allora non è cambiato nulla), l’età media dei presidenti e degli amministratori delegati nel settore bancario è di 67 anni.