By: gestione
Le nostre banche sono complici del riciclaggio cinese
Tratto da Lettera43
Quella del clero, esaminata la settimana scorsa, purtroppo non è l’unica categoria che le banche (e non solo) proteggono per preservare il sistema.
È il caso di dire che gli istituti di credito (e non solo) fanno differenze, oltre che di religione, anche di razza visto che tra i loro tutelati ci sono, da sempre, anche i cinesi.
Già, i commercianti orientali hanno una corsia preferenziale nel mondo bancario al contrario di qualsiasi altro piccolo imprenditore italiano.
Spiega Vittorio Carlomagno, dell’associazione contribuenti italiani: «Dove la comunità cinese è maggiormente presente, è stato rilevato un indice di evasione fino al 98%».
UN GRANDE GIRO DI DENARO. Quando ero responsabile per la banca dell’area di Napoli controllavo anche una filiale situata nella China Town partenopea, nei pressi del vecchio stabilimento della manifattura del tabacco, dove a trovare un cliente italiano si fa fatica.
Ieri come oggi, quella è l’agenzia in cui gira tanto denaro: fattore determinante per gli asset bancari grazie ai quali vengono elargiti i cospicui premi per il middle e top management. E allora perché rompere questo idillio? Alla faccia anche della legge sull’antiriciclaggio.
La scena è sempre la stessa. Il commerciante cinese dall’altro lato della scrivania che legge quanto riporta il modulo precompilato: «Gentile cliente, la normativa antiriciclaggio impone l’obbligo di informare la banca se le operazioni sono svolte per conto di altri soggetti. Tali operazioni potranno essere disposte esclusivamente in agenzia, previa presentazione di copia di un documento di identità del soggetto terzo».
MAI UNO STOP A PROCEDERE. Nessuno di loro che obietti qualcosa: un sorrisino, una firmetta e via con la raffica di operazioni. Eppure, proprio dietro i documenti d’identità, si cela la prima stortura.
Spesso i nomi riportati si ripetono e dalla fotografia, per un occidentale, è difficile distinguere un soggetto da un altro. Tante le comunicazioni inviate all’ufficio della banca preposto a raccogliere le segnalazioni da inoltrare alla guardia di finanza, in cui si faceva presente che, ad esempio, in una delle agenzie di mia competenza era stata «effettuata un’importante operazione di euro 70 mila per conto di un tale di nome Xian (a questo seguono altri due nomi che per tutelare l’identità non trascriviamo, nda) il cui nominativo e i connotati facciali ricordano quelli di altri documenti che allego. Il soggetto in questione sostiene non si tratti della stessa persona. Chiedo verifica».
E Xian non è il solo: è successo anche con i vari «Wang» e con i tanti «Zhou» ma dall’alto è sempre arrivato l’ok a procedere, o meglio non è mai arrivato uno stop a procedere.
L’ufficio centrale della banca fa finta di niente
Non solo. I cinesi da quelle parti arrivano in banca con le buste della spazzatura piene di soldi. Una volta ho visto con i miei occhi svuotare un sacco nero di plastica sulla scrivania di un collega: «Sono 40 mila euro», dice il commerciante orientale.
In quel caso, come in tanti altri, quando si domanda la provenienza di tutto quel denaro la risposta è pressoché scontata: «È l’incasso del ristorante».
E a quel punto parte la segnalazione all’ufficio centrale della banca.
QUANTE SEGNALAZIONI ALLA FINANZA? E ancora, capita spesso che i cinesi chiedano grosse somme in contanti per «acquistare nuovi locali e aprire nuove attività». Prestiti da 20-30 mila euro anche più volte a settimana. Anche qui, almeno fino a quando ho lavorato in banca, è sempre partita la segnalazione all’ufficio centrale della banca.
Ogni tanto poi mi divertivo a visitare qualche loro negozio, a volte mi riconoscevano ed erano sempre molto cordiali. E, quando compravo qualcosa e chiedevo lo scontrino, al massimo emettevano un pezzo di carta da una calcolatrice elettronica, di quelle che usano i ragionieri: insomma, tutto fuorché una ricevuta fiscale. Sempre con estrema tranquillità.
Ma quante segnalazioni sono effettivamente arrivate tramite l’ufficio centrale alla guardia di finanza? Difficile stabilirlo, ma sta di fatto che dal 2009 al 2012 in quei locali e a quei clienti i militari non hanno mai fatto “visita”.
EVASIONE ALLE STELLE. Non ho avuto notizia di un solo controllo (ne sono certo poiché quando scatta la verifica dei finanzieri, i funzionari della banca vengono contattati per fornire loro gli estremi del cliente segnalato) per certificare la provenienza del denaro.
Eppure, nel 2011, da un’indagine dell’Associazione dei contribuenti risulta che solo in quel quartiere di Napoli «esistono ben 9.300 imprese, tra ditte individuali, società di persone e di capitali, su un totale di 15.000 esistenti e la gran parte di queste sono riconducibili a imprenditori cinesi, che gestendole tramite prestanome, non pagano regolarmente le tasse».
Per non parlare di città come Prato, in cui vive la più grossa comunità orientale, dove «su un campione di 100 dichiarazioni dei redditi presentate da confezionisti cinesi per il 2010 è emerso che, a fronte di 200 mila euro di imposte da pagare, l’Agenzia delle entrate non ha riscosso nulla».
La piovra mondiale del riciclaggio
E non si venisse a negare questa complicità con i clienti cinesi. Scrive il Corriere della Sera in data 22 giugno 2015: «La sensazione è quella di avere scoperto uno dei tentacoli, il più pericoloso e mastodontico, della piovra mondiale del riciclaggio. Che soltanto dall’Italia ogni anno riusciva a far sparire un miliardo di euro per trasferirlo in Cina. Soldi sporchi, frutto di evasione fiscale, contraffazione, immigrazione clandestina, reati doganali. Forse prostituzione. La guardia di finanza di Firenze ne ha contati per ora 4 di miliardi illeciti riciclati all’estero».
Un’operazione colossale che conta, tra arrestati e indagati, 297 persone, per lo più orientali, e che potrebbe diventare un maxiprocesso.
L’AGGRAVANTE MAFIOSA. Venti di loro, infatti, hanno anche l’aggravante mafiosa perché si muovevano come Triade comanda: «Minacce, intimidazioni, ricatti, violenze. Associazione per delinquere, trasferimento illecito di denaro all’estero, evasione fiscale».
Come spiega il giornalista Marco Gasperetti, «l’inquisito eccellente di questa inchiesta, iniziata almeno cinque anni fa, non è una persona fisica ma un istituto di credito: la filiale di Milano di Bank of China, la banca di Stato della Repubblica popolare cinese. Secondo la procura – continua il cronista – almeno quattro suoi dirigenti (direttore e vicedirettore compresi) non avrebbero segnalato una sequela interminabile di operazioni sospette, omettendo i controlli imposti dalla legge».
GLI STRUMENTI PER AGGIRARE LA LEGGE. Si parla di migliaia e migliaia di money transfer che quotidianamente piccoli imprenditori e aziende cinesi inviavano via computer. «Il “grande forziere”, gestito da alcune famiglie cinesi in odore di mafia, aveva la complicità di una finanziaria con propaggini a San Marino ed era gestita per l’accusa, dalla Money2Money, società di money trasfer con sede a Bologna e ramificazioni in tutta Italia», aggiunge Gasperetti.
Per aggirare la legge, che prevede limiti di 2 mila euro portati poi a 1.000 per ogni singolo trasferimento, «l’organizzazione adottava la tecnica dei mini versamenti da 1999,99 prima e da 999,99 euro poi con falsi intestatari. I soldi più o meno sporchi, raggiungevano infine la Cina e tornavano candidi, pronti ad essere investiti in nuovi progetti, spesso illegali», conclude.
È chiaro, dunque, che anche i cinesi siano per molti versi una categoria protetta dal sistema del credito e i motivi sono alquanto scontati, visti i soldi che passano per le loro mani.