By: gestione
Il nemico delle banche si chiama Fintech
Articolo Moneyfarm
Crediti in sofferenza, eccesso di personale, scarsa patrimonializzazione, riduzione del numero delle filiali, etica negli affari: sembrano solo questi i problemi che il sistema bancario deve risolvere per poter rimanere a galla.
Ma ci si dimentica spesso della principale preoccupazione che il mondo della finanza “classica” dovrebbe avere e che potrebbe in pochi anni stravolgerlo completamente, introducendo sul mercato nuovi player che le nostre attuali banche, e men che meno gli analisti, al momento non riescono neppure a vedere: il Fintech. Questa cecità costerà lacrime e sangue al mondo della finanza così come è avvenuto nel mondo delle agenzie di viaggio.
Vi ricordate quante ne incontravate per le strade fino a 20 anni fa? Provate a fare lo stesso giro oggi.
Sono ormai anni che la tecnologia si è insinuata nelle nostre vite, sconvolgendo – anche in positivo – non solo le interazioni sociali, ma anche quelle bancarie. A tal proposito circa un anno fa il prestigioso settimanale inglese The Economist ha dedicato un lungo articolo alla rivoluzione Fintech, la quale vede protagonista una nuova generazione di startup sta mirando al cuore del settore finanziario, generando ricavi la cui stima ammonta a circa 4,7 miliardi di dollari.
E per nuova generazione, in questo caso, ci riferiamo sia ai fornitori che ai consumatori perché i nativi digitali ormai acquistano online ciò che il sottoscritto si ostina ancora a cercare per i negozi della città.
Ma di cosa si tratta precisamente? L’universo Fintech, o Financial Technology, comprende tutti quei modelli di business innovativi che elaborano e usufruiscono di software per svolgere ogni tipo di servizio.
Le imprese inserite in questo sistema sono generalmente startup che stanno rivoluzionando l’attuale mondo finanziario, creando un settore industrializzato basato sulle nuove tecnologie al fine di renderlo più efficiente soprattutto sul web.
Nuovi concorrenti si stanno impadronendo del sistema dei prestiti alle piccole imprese, agli studenti, ai privati, sfruttando tecnologie, velocità, capacità di usare il web per creare mercati finanziari digitali.
Ovviamente parliamo del mondo anglosassone dove il Fintech è divenuto l’incubo delle grandi banche.
Nel nostro Paese iniziamo ora a familiarizzare con concetti come crowdfunding (raccolta di piccoli capitali dal pubblico dei risparmiatori), peer-to-peer lending (finanziamenti concessi da privati a privati o a imprese), asset management gestito con algoritmi (i cosiddetti ‘robo-advisor’), gestione dei pagamenti, credit-scoring (sistemi di valutazione del rischio di credito), valute digitali o cripto-valute (come ad esempio il BitCoin).
Il settore Fintech è ancora agli albori in Italia, fatta eccezione per la rivoluzione messa in atto da MoneyFarm partita da Milano e ora sbarcata anche a Londra.
Nonostante varie siano state le iniziative che hanno provato a mappare le start up italiane (come SmartMoney) e globalizzare il fenomeno, attorno a questa realtà c’è ancora parecchio vuoto.
E la ragione è molto semplice: per apportare modifiche in un settore come quello finanziario, che è altamente regolamentato, servono grandi capitali e spesso bisogna avere il coraggio di investire in aziende innovative che, pur crescendo, all’inizio sono in perdita.
Ma se la legislazione e il lobbismo possono frenare lo sviluppo di start up nel nostro Paese, sicuramente non possono arginare lo tsunami che assume invece le sembianze dei grandi colossi come Apple, Facebook, Google, Amazon, Yahoo, che sicuramente non difettano di grandi capitali e di coraggio e che si apprestano ad entrare nel mondo finanziario per stravolgerlo.
Che scenario si prospetta, dunque, per l’Italia e su quale terreno le Fintech possono sbaragliare le banche tradizionali?
Il panorama che si presenta dinanzi mostra una vulnerabilità del business bancario tradizionale minacciato dalle Fintech per tre motivi.
Primo: la qualità del management e la capacità innovativa. Nel nostro Paese siamo al paradosso che un management vecchio e poco flessibile stabilisce strategie per cui le banche ancora non finanziano le startup (troppo rischiose) e nelle direzioni crediti le immobilizzazioni immateriali (brevetti, software, ricerca & sviluppo) sono “stralciate” dal bilancio per valutare la consistenza patrimoniale, come se non esistessero.
Secondo: la velocità di risposta che influenza – anche psicologicamente – i rapporti di forza tra domanda e offerta di sevizi finanziari. Il patrimonio tecnologico di questi operatori planetari e giganteschi vale almeno 20 volte quello delle banche. Basti pensare alla gestione dei pagamenti che nell’era dell’informatica, se effettuata tramite i servizi online, talvolta può richiedere ancora ore, o perfino giorni.
Terzo: la mancanza di fiducia che le banche hanno prodotto negli ultimi anni per effetto della mala gestio e degli scandali. Il cliente è sempre più esigente e pronto a rivolgersi a nuovi player, se non soddisfatto.
Provate a fare un reclamo per un acquisto effettuato su Amazon e vedete dopo quanti minuti vi rispondono e come vi assistono. Questa è la customer satisfaction. Questi colossi sono dotati di un capitale di fiducia dai propri utenti che supera di molto quello delle stesse banche.
Se Uber (trasporti) e Airbnb (alloggi e residenze) esplicano i loro servizi senza avere né le auto né le case che affittano, può esistere in futuro una banca senza capitale o reti di sportelli? Ne vedremo delle belle.